Afghanistan, sulla strada della libertà  battaglia per l’arteria che unisce il paese

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BALA MURGHAB (Afghanistan) – Il fiato dei buoi si condensa nell’aria gelata, l’aratro di legno avanza piano nell’argilla tenace del Badghis e disegna sulla collina un reticolo di solchi superficiali. «Meno male che qui non arano sul tracciato della strada, come hanno fatto a Kurutu». Corrado Orrù, sergente della Brigata Sassari, abbassa il binocolo sui sacchetti di sabbia dell’avamposto Highlander. Sotto la postazione italiana, nella valle, gli afgani dell’Esercito nazionale presidiano tranquilli il checkpoint sulla Ring Road. Uno dorme su una sdraio, un altro è sparito da qualche parte, dopo aver appeso a un filo l’uniforme umida di bucato.
La Ring Road è quasi deserta. Ogni tanto una moto arranca fra le buche, due contadini avanzano lenti accanto all’asino carico di legna. Quella striscia sterrata che scompare dietro l’angolo, poi riappare più lontano e si inoltra nella foschia, è l’arteria aorta dell’Afghanistan: tremila chilometri che uniscono in un anello Kabul a Kandahar, a Herat, a Mazar-i-Sharif. Costruita negli anni Sessanta con finanziamenti americani e sovietici, quando il governo afgano giocava su due tavoli, adesso è la strada della libertà , il pegno della scommessa solenne fatta dall’Occidente sul futuro del Paese. Quando sarà  tutta praticabile, potrà  garantire settecentomila posti di lavoro per tutta l’Asia centrale, sostiene uno studio dell’Institute for Security and Development Policy di Stoccolma. Difenderla, controllarla, garantirla è parte integrante della missione occidentale. Perché, diceva l’ex ambasciatore statunitense Karl Eikenberry, «dove finiscono le strade cominciano i Taliban».
La sentinella è la base avanzata “Columbus”, nel vecchio cotonificio vicino al fiume Murghab. L’acqua marrone divide le enormi tende gonfiabili dell’Esercito dalle case di fango del villaggio. A unire le due sponde, accanto al vecchio ponte inservibile, ce n’è uno di metallo, costruito dai genieri italiani per saldare l’anello. Non è asfaltata, qui, la Ring Road. Altrove i dollari della Asian Development Bank sono serviti a renderla un manto liscio. Hanno fatto la gioia degli analisti americani, convinti che non sia facile nascondere bombe sotto il manto di bitume. Peccato che poi la manutenzione peserà  sulle casse di Kabul: quando l’anello sarà  restaurato del tutto, ci vorrà  un miliardo di dollari ogni cinque anni per tenerlo in efficienza.
Qui a Bala Murghab è presto per pensare all’asfalto: il tempo va più lento, scandito dall’alba e dal tramonto. Nelle case non c’è corrente elettrica: quando il sole se ne va, la giornata finisce. Nelle ore di luce gli afgani camminano dietro il mulo, i più fortunati su una piccola monocilindrica cinese. «Ad Highlander vediamo passare non più di una macchina ogni ora», racconta il caporale Federico Donatiello. Ma non importa se il traffico sulla Ring Road è modesto. Il colonnello Luigi Viel spiega: per l’Isaf quello che conta è garantire la “bolla di sicurezza”, la zona bonificata, dove gli insorti non dovrebbero metter piede. È una sorta di “isola” nel nord-ovest, in cui Viel e i suoi 400 uomini tengono duro, contando su rifornimenti lanciati con il paracadute. Con l’arrivo della “Sassari”, la “bolla” ha una forma quasi a “X”: segue la Ring Road che viene da Sud e curva verso Est, ma copre anche altre due vie, verso Nord e verso Ovest. Quest’ultimo tratto sembra una duplicazione della Ring Road, ma è indispensabile per evitare gli agguati nel canyon di Buzbai, che i soldati chiamano Termopili.
Per tenere aperta la circolazione, racconta Viel, si usano le quattro fasi della dottrina Nato della contro-insurrezione: «Si comincia con lo Shaping: ricognizioni, contatti con la popolazione, raccolta di informazioni. Poi si va al Clear, cioè impedire agli insorti la libertà  di movimento. È la parte più cinetica». Questa parola è l’ultima passione dei militari: vuol dire semplicemente che si usano le armi, ma nel gergo ufficiale ogni riferimento all’uso della violenza sparisce. «Old è la terza fase: consolidamento di ciò che si è ottenuto, osservazione e controllo. Infine, Build: operazioni rivolte ai civili, sostegno e aiuti umanitari».
Insomma, per tenere libera la regione bisogna costruire il consenso, cioè conquistare “cuori e menti” della popolazione. Servono gli incontri con la Shura, l’assemblea dei saggi, o i progetti di piccole opere preziose, pozzi, scuole. E l’ambulatorio, dove Rosanna Annecca e Luca Interisano, medici della “Sassari”, si affaccendano su Iwaz, nato prematuro da una ragazza di 16 anni che non è sopravvissuta al parto. «Ce la farà : i bambini di qui sono fortissimi», sorride Interisano.
E i piccoli abitanti di Bala Murghab, che prima scappavano al passaggio delle pattuglie sui blindati Lince, adesso si fermano e fanno il saluto militare. «I “sassarini” hanno sempre conquistato la gratitudine della gente, da Asiago all’Afghanistan», taglia corto Andrea Alciator, decano della Brigata e tutore della memoria. La storia si ripete alla rovescia: nella guerra del ‘15-‘18, la Sassari combatteva sulle trincee del Monte Zebio per chiudere la strada che serviva al nemico austriaco per i rifornimenti. Oggi sorveglia che resti aperta la via che garantisce il futuro all’Afghanistan. «Allora c’erano uniformi inadatte, scarpe leggere, viveri che non arrivavano», racconta Alciator. Oggi negli avamposti spuntano visori notturni e droni di sorveglianza computerizzati. Nemmeno il freddo è più quello di un tempo: fra i sacchi di sabbia si affaccia la bocchetta del riscaldatore a gasolio, che spinge aria calda sulle sentinelle. Solo il fango denso, cocciuto, colloso, è rimasto lo stesso di cento anni fa.


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