La vittoria di Guariniello «Più di così non posso Forse è l’ora di lasciare»
Nel suo ufficio al settimo piano della procura ormai vuota, adesso che scende la sera ci si può anche lasciare andare, è tempo di bilanci. «Questa potrebbe essere stata la mia ultima udienza» dice. Poi passa ad elencare, uno per uno, i pubblici ministeri della sezione reati ambientali da lui creata. «Gente che sa come portare avanti il nostro lavoro. Io, invece, sono stanco. L’età per la pensione ormai l’ho raggiunta da cinque anni. Questo processo è un punto d’arrivo, e dopo non riesco a immaginare altro. Il mio sogno è sempre stato una procura nazionale che si occupi di sicurezza sul lavoro, anche se mi rendo conto che in Italia non siamo ancora pronti per una cosa del genere. Non chiedo nulla, ma credo che forse sia arrivato il momento di lasciare la magistratura. Più di così non riesco a fare».
La stanchezza salta sempre addosso all’improvviso, e i suoi agguati coincidono con le svolte importanti. Ma è vero che il procuratore più temuto dalle aziende italiane, e non solo quelle, ha sempre pensato alle inchieste sul rogo della Thyssen e ai morti d’amianto come alle sue pietre miliari che condensavano i suoi quarant’anni di esperienza in magistratura. «Guardi che io sono di Frugarolo» ha detto ieri a un giornalista francese che lo stava definendo «magistrato torinese». C’è molto di Guariniello in questa pignoleria al confine con un narcisismo che spesso gli è stato rimproverato come un peccato capitale. La sostanza è ben altra. Effettivamente nato nel 1941 in questo paese dell’alessandrino, figlio di un sarto di origine salernitana, ha studiato allo storico liceo D’Azeglio di Torino, si è laureato con Norberto Bobbio e Giovanni Conso, e da allora ha scelto da fare carriera su una strada scoscesa e ben poco frequentata.
Era in magistratura da appena due anni quando, 5 agosto 1971, autorizzò sopralluogo e perquisizione negli uffici della real casa Fiat, che generarono il celebre processo sulle schedature dei lavoratori. Vennero le prime inchieste sull’amianto, sulle fabbriche dei tumori, quelle sul doping sportivo. Ha perso, ha vinto, è stato dipinto come un magistrato esibizionista, quando invece era l’unico ad occuparsi di certi reati. Adesso, dopo la doppietta Thyssen-Eternit, c’è tanta gente che ha smesso di ridere.
«Le condanne di oggi e quella dello scorso aprile all’amministratore delegato della multinazionale tedesca sono il frutto di un metodo nuovo che sta diventando giurisprudenza. Abbiamo scelto di contestare il dolo in entrambe queste vicende, perché non ci siamo fermati all’accertamento delle colpe, come quasi sempre capitava nei procedimenti sulle morti bianche. Ci siamo interessati della politica aziendale sulle sicurezza, facendo leva su indagini condotte come se si trattasse di qualunque altro caso di quella che voi chiamate cronaca nera. E sono saltate fuori le responsabilità . La mia speranza è che questo metodo divenga una consuetudine». Anche queste ultime parole sanno di congedo. Ma resta comunque qualche dubbio sulle sue reali intenzioni. Ieri alle otto e mezza di sera Raffaele Guariniello era ancora in ufficio.
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