Stevenson, Come nacque Mister Hyde

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Il vero spettro che infestava i sogni di Robert Louis Stevenson non era il tesoro segreto e nascosto dei pirati, ma il segreto del Male nascosto nelle cantine dell’anima. Fin dalla più tenera età  Stevenson era stato immerso in un mondo di protestantesimo presbiteriano ossessionato dalla guerra tra il Bene, che è sempre e solo dei giusti, e il Male, che è sempre e solo degli empi: una lotta che risaliva a Caino e Abele, la coppia di fratelli nemici mortali di cui narrava la Bibbia. Ma Stevenson, con un gesto degno dei supremi romanzieri, rifiutò la semplificazione morale della Bibbia coatta della sua infanzia, e rese il conflitto tra fratelli un conflitto che rivive nel cuore di ognuno. L’uomo è duplice, un empio e un giusto nella stessa persona: Jekyll e Hyde sono due facce della stessa medaglia, perché il conflitto tra bene e male è ambiguo, e Stevenson avrebbe potuto ripetere in piena epoca vittoriana le parole del profeta Geremia: «Il cuore dell’uomo è fraudolento sopra ogni altra cosa, e disperatamente insanabile. Chi lo conoscerà ?». 
Ma il desiderio di capire lo sdoppiamento fraudolento dell’Io, che nello Strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde giunge a perfezione e precorre Freud, ossessionò Stevenson fin dagli inizi come sappiamo ora da un racconto lungo intitolato Una vecchia canzone, tradotto in italiano da Fabrizio Bagatti per la casa editrice Barbès. Quarant’anni fa uno studioso di Stevenson scoprì una pagina manoscritta che gli fece attribuire senza dubbi all’autore de L’isola del tesoro un racconto anonimo intitolato An old song apparso nel 1877 sul London, un periodico sul quale erano usciti i primi racconti di Stevenson. Una vecchia canzone narra del dissidio tra due cugini cresciuti insieme, che dicono di sé «siamo più vicini che se fossimo fratelli»; il vecchio zio, credente fanatico e conservatore assoluto, ha deciso che l’eredità  e la figlia di un ricco possidente andranno a John, e niente al cugino di sole tre settimane più giovane, Malcolm. Una storia che ricorda una vecchia canzone? Sì, perché ricorda Caino e Abele, ma ricorda anche il capolavoro di Stevenson, Il Signore di Ballantrae, il romanzo dove Stevenson portò al culmine la sua indagine del Male, e in cui mise in scena non più timidamente due cugini ma proprio due fratelli. Lo schema del racconto giovanile e del capolavoro della maturità  è lo stesso: il cattivo John di Una vecchia canzone e il malvagio James del Signore di Ballantrae sono abitati dal Male, ma sono intelligenti; il buon cugino Malcolm e il buon fratello Henry sono buoni, ma un po’ sempliciotti; e colui che rende nemici i fratelli è sempre un vecchio fanatico religioso, un militare o un politico, e un represso incapace di amare. 
L’epoca e la necessità  di vendere, come confessò Stevenson stesso dicendo che Flaubert e Balzac avevano potuto essere molto più liberi di lui, frenarono le sue esplorazioni nella tenebra, e quando in Stevenson, spesso, affiorano accenni a nevrosi sessuali o religiose, scatta la censura, e riusciamo solo a intravedere gli abissi del crimine e della perversione: allo stesso tempo, paradossalmente, è probabile che il fascino del raccontare di Stevenson nasca in parte da questa censura-cesura, dalla sensazione costante di trovarci sull’orlo di un universo maligno che sentiamo esistere ma che non ci viene mai mostrato tutto. 
Stevenson poteva trovare la personalità  doppia che lo ossessionava nel William Wilson di Poe e negli Elisir del diavolo di Hoffmann, ma fu nell’ammirato Dostoevskij, che in una lettera chiamò «un bel tipo di demonio», che vide il suo inarrivabile modello. Stevenson, che è diventato famoso per le sue trame, aveva una concezione complessa del raccontare, una visione che si accostava a Dostoevskij anche nella ricerca delle situazioni abnormi, quelle in cui dallo stagno quieto e superficiale del quotidiano sbucano imprevisti i mostri del profondo: «Ciò che è ovvio non è per forza ciò che è normale; la moda governa e deforma; la maggioranza si adegua docilmente alle regole vigenti, e così raggiunge, agli occhi di chi osserva in profondità , solo un alto potere di nullità ; il pericolo sta nel fatto che, a cercare di ritrarre il normale, si rischia di ritrarre il nulla, e si rischia di scrivere il romanzetto della società  invece che il romanzo dell’uomo…». È probabile che non abbia giovato allo Stevenson scrittore complesso, astutamente inverosimile e nero l’entusiasmo eccessivo per L’isola del tesoro e gli altri libri d’avventura, opere sopravvalutate; né gli ha giovato il fatto che un grandissimo come Calvino, per motivi di poetica personale, tendesse a illuminarne poco il suo lato Dostoevskij: ma se Calvino faceva ciò che fanno gli artisti, i critici non hanno giustificazioni. E così i capolavori neri di Stevenson, con l’eccezione di Jekyll e Hyde, restano nell’ombra: Il signore di Ballantrae e I Weir di Hermiston, un po’ sotto anche il tenebroso The Merry Men, il torbido Markheim, il misterioso e oppiaceo Olalla che piaceva molto a Calvino, e persino opere minori come L’accaparratore di corpi, Janet la storta o le Favole, che di favole hanno solo il nome e raccontano bizzarrie e atrocità . 
È quindi una fortuna che il giovanile e ancora esitante Una vecchia canzone venga a ricordarci lo Stevenson inquieto e perturbante, quello più vicino ai nostri tempi di delitti e perversioni. Le ultime parole che Stevenson dettò sul letto di morte furono quelle su cui si interrompe incompiuto I Weir di Hermiston: «… un’ostinata convulsione di materia bruta…». Le ostinate convulsioni di materia bruta in cui giace l’essenza del Male Stevenson non smise mai di indagarle, e i suoi racconti di viaggi e di avventure nei mari del Sud sono toccanti e lievi perché sanno di essere i sogni di un’innocenza perduta, sogni e illusioni della letteratura che inventa la vita, passi di danza sull’orlo dell’abisso dell’Io ammalato, canzoni di un tempo finito cantate per vincere la paura del tempo senza fine dell’ingiustizia e del male.


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