IL DECLINO DEI PARTITI E IL POTERE ECONOMICO
Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda. Il compromesso con l’esistente dottrina economica consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società –la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi– fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico.
L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell’allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli Anni 80 l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società , una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche.
La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz’altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell’articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?
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