Tapies, il signore della materia

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 “L’idea essenziale che mi viene in mente, è trovare un’arte che stimoli una visione in profondità , che ci avvicini alla realtà  autentica, alla vera natura dell’uomo. Con un approccio il più intenso possibile, si può entrare nel centro dell’universo”. Era questa la vocazione di Antoni Tapies, il grande artista spagnolo scomparso ieri sera. C on luji se ne va forse l’ultimo grande maestro del secolo passato.
Celebre per i suoi quadri informali, tele e lenzuoli sulle quali lascia tracce, graffi, segni, Tapies era nato a Barcellona nel 1923. Fonda la rivista Dau al Set, di impostazione neodadaista nel 1948 insieme ad altri artisti come Joan Brossa, Joan Ponà§, Modest Cuixart, Joan Josep Tharrats, Arnau Puig e Juan Eduardo Cirlot. Nel 1950, anno della sua prima personale, compie il primo viaggio a Parigi dove incontra Pablo Picasso. Sono gli anni in cui la sua pittura è influenzata da Klee, Max Ernst, Mirò. Più tardi tutta la sua produzione ha un filo rosso che la lega alla filosofia esistenzialista, e a tratti, diventa sempre più intensamente drammatica. I suoi grandi dipinti soprattutto di bianchi, grigi, neri diventano sempre più materici e spesso trattengono segni che sembrano ferite. Tapies è attratto da Sartre e dall’idea che l’uomo sia “gettato nell’esistenza”. E molto presto ha imparato che “l’inferno sono gli altri”. 
Infatti, tra le vicende che più lo colpiscono, c’è senza dubbio la guerra civile spagnola, che insieme a una grave malattia, segnano la sua giovinezza. Quando conosce Picasso, è sicuramente incuriosito dal genio, dall’artista che ha rivoluzionato l’arte del Novecento, ma soprattutto dall’autore di Guernica, il più grande grido di dolore per una guerra fratricida. L’impegno politico resta una costante nel suo percorso. In questo si distingue da Alberto Burri, al quale viene spesso avvicinato a causa del medesimo amore per le sperimentazioni della materia. Per Tapies la pittura che racconta la sofferenza, il dolore, ma anche l’intensità  dell’esperienza dell’uomo ha sempre un valore fortemente etico. Spesso sulle sue opere compare la croce, segno universale di ingiustizia. Che per l’artista catalano è anche sociale. Le sue opere, negli anni Sessanta e Settanta, aumentano di dimensioni creando un vero e proprio assorbimento dello sguardo nella materia, scabra, spenta, eppure bellissima. C’è sempre un forte afflato spirituale che deriva anche dalla frequentazione del buddismo e delle religioni orientali. Negli anni Ottanta dà  vita alla serie dei “muri” in cui bellezza e desolazione sembrano convivere in spazi che alludono alla vita metropolitana. Negli stessi anni comincia a realizzare grandi installazioni. 
Molte sono state le mostre a cui ha partecipato. Nel 1953 espone per laa prima volta in una personale negli Stati Uniti, dopo aver partecipato al Carnegie Internetational a pittsburgh. Nel 1960 presnde parte a unamostra di pittura e scultura spagnola al Museo d’arte Moderna di New York. Nel 1992 rappresenta la Spagna alla Biennale di Venezia e, in quella occasione, vince il Leone d’oro. Due anni fa ha inaugurato la Fondazione che porta il suo nome, sigillo alla sua straordinaria maestria.


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