ARTICOLO 18 L’OSSESSIONE DI GOVERNO E SINDACATI

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Il governo ne fa una condizione preliminare per la riforma del mercato del lavoro: se non si abolisce o almeno non si riscrive togliendo di mezzo l’ipotesi del reintegro dei licenziati, non si potrà  migliorare la flessibilità  in entrata e in uscita dei posti di lavoro e non si potrà  combattere efficacemente il precariato.
I sindacati dal canto loro lo considerano la sola vera protezione dell’occupazione esistente nelle piccole aziende, che sono l’enorme maggioranza dell’economia italiana e quindi si oppongono a qualunque ritocco di quella norma.
Sbagliano sia il governo sia i sindacati. L’articolo 18 non serve infatti a impedire i licenziamenti discriminatori che i giudici possono in ogni caso bloccare ove ne accertino l’esistenza. Ma non impedisce affatto un miglioramento sostanziale della flessibilità  e una riforma positiva del mercato del lavoro.
Sembrava fino a pochi giorni fa che Monti e Fornero avessero deciso di accantonare il tema e di procedere allo snellimento dei contratti di lavoro e di normative di contrasto del precariato. Ma ora si sono di nuovo impigliati in questa questione motivando che l’Europa e il mercato chiedono l’abolizione di quella norma. I mercati in realtà  dell’articolo 18 se ne fregano, fino a un anno fa lo “spread” oscillava tra i 100 e i 150 punti nonostante che l’articolo 18 fosse in vigore. Quanto all’Europa (e alla Germania) quella norma non ha niente a che vedere con il rigore e non è certo essenziale per la crescita per la quale semmai siamo noi in credito sia con l’Europa sia con la Germania.
Monti ha detto – nell’intervista data venerdì al nostro giornale – che i governi precedenti al suo «hanno avuto troppo buon cuore nei confronti degli italiani». Ancora una volta si è espresso in modo improprio come ha fatto riguardo al posto fisso «monotono». Il buon cuore dei precedenti governi sarebbe la causa dell’immenso debito pubblico accumulato negli anni Ottanta e mai affrontato con serietà  per ottenerne la diminuzione. È esatto, salvo la notevole riduzione ottenuta da Ciampi e da Prodi che però fu rapidamente dissipata da Berlusconi e Tremonti. Ma l’immenso debito non si può attribuire al buon cuore, bensì alla preferenza di quei governi di scaricare sulle future generazioni l’onere d’un bilancio in pareggio da ottenere attraverso il fisco.
Meglio indebitarsi che tagliare la spesa o far pagare le imposte. Questo non è buon cuore ma furba demagogia.
L’articolo 18 dunque non deriva dal buon cuore di nessuno.
Fu introdotto nello statuto dei lavoratori per tutelare i dipendenti delle piccole imprese dove il sindacato interno non esiste. In tempi duri se ne può discutere purché non diventi un’ossessione né per gli uni né per gli altri.
* * *
Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera.
Quest’ultima dipende dall’andamento dell’economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati.
Gli ultimi due – sindacati e imprese – possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività  e della competitività . Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d’acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino.
Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l’edilizia scolastica, l’edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo «sfasciume pendulo» delle montagne.
Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all’immobilismo più disastroso.
* * *
Ci sono quattro modi per procurare risorse: 1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari.
2. Recuperare i miliardi evasi.
3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico.
4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.
Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il “trend” dell’economia reale occorre che la loro disponibilità  sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall’evasione è realistico aspettarsi quest’anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.
Dall’utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi.
L’imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo.
Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d’una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all’1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell’Ici contiene già  un prelievo «progressivo».
Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già  nel 2013.
L’operazione della liquidità  attuata dalla Bce sta già  producendo i primi benefici e altri ne verranno dal secondo sportello che Draghi ha predisposto per il prossimo febbraio. Si tratta d’un meccanismo di cui beneficiano sia le imprese sia i rendimenti dei titoli di Stato con conseguenze notevoli sull’andamento dell’economia reale e sulle aspettative dei mercati.
* * *
L’ottimismo è dunque motivato sempre che il governo possa continuare il suo lavoro fino al termine della legislatura.
Personalmente credo che questo avverrà , l’ipotesi che il Pdl venga meno all’impegno assunto non mi sembra realistica.
Esiste tuttavia un problema politico che riguarda i partiti e la loro innegabile crisi. Questo problema ha due aspetti: la legge elettorale e la natura stessa dei partiti che non potrà  più essere quella che abbiamo fin qui conosciuto.
I partiti, di fatto, non esistono più. Esistono soltanto sparuti gruppi dirigenti e autoreferenti, che hanno perso ogni contatto col territorio e con gli elettori; una sovrastruttura che conserva un potere parlamentare, circondato però da una generale e crescente disistima che alimenta pericolosi fenomeni di antipolitica, mentre i compiti che si prospettano nella futura legislatura saranno non meno impegnativi di quelli che il governo Monti si è addossato.
Per riguadagnare il terreno che la politica ha perduto a causa dei partiti, diventati gusci vuoti e agenzie di collocamento delle proprie clientele, è dunque necessaria una profonda riflessione autocritica che purtroppo non è neppure cominciata né a destra né a sinistra. Non la sta facendo il Pdl e neppure il Pd. Il centro è più al riparo da quella crisi perché beneficia del fatto di essere un’opzione tra due debolezze ed in più beneficia anche d’una evidente attenzione da parte della Chiesa.
Ma il centro, da solo, cesserebbe di esistere; non a caso ha assunto il nome di Terzo polo che ne presuppone l’esistenza di altri due.
La destra dovrebbe rinascere dalle ceneri del berlusconismo, impresa quanto mai difficile fino a quando il Pdl non imploderà . Prima o poi quell’implosione avverrà  perché è scritta nella natura di quel partito, un’accozzaglia di tribù tenute insieme dal populismo del vecchio padre-padrone, ormai finito in una rovina. Ci sarà  ben poco di utilizzabile in quella rovina.
Resta il Partito democratico e la sinistra. Bersani, dopo le recenti amministrative e i referendum, ebbe una giusta intuizione: mettere il partito al servizio dei movimenti congeniali con la visione riformista del Pd e chiamarli a manifestare la loro vitalità  in occasione delle primarie.
Nel frattempo fare del partito il luogo di dibattito e approfondimento dei temi di fondo: una visione dell’Italia e dell’Europa del futuro, un processo costituente da realizzare nella prossima legislatura, l’avvio della terza Repubblica ridando alla politica la forza propulsiva che ha da tempo e in larga misura smarrito.
Dopo questo governo nulla sarà  più come prima. I partiti non si illudano di ricondurre la politica alla partitocrazia della prima Repubblica; si uscirà  dal presente guardando al futuro e non tentando di recuperare un passato ormai sepolto per sempre.
Purtroppo questa tentazione esiste e se non sarà  debellata porterà  altre sciagure. Sta agli uomini di buona volontà  far sì che questo non accada.


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