L’Inganno del Critico

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Provo sempre un sentimento di disagio quando mi si applica la qualifica di “critico d’arte”. L’origine del termine è tra le più incerte, il suo impiego è tra i più vaghi, la sua serietà  tra le più contestate. Poiché requisito dell’arte è il silenzio – Poussin diceva che «la pittura concerne le cose mute» – il critico d’arte non potrà  che esserne la protesi, una sorta di ventriloquo dell’arte. L’etimologia della parola sembra, in verità , suffragare questa interpretazione. È un termine che rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l’arte. In ogni caso è in questa prospettiva che l’attività  “critica” acquista un senso. 
Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un’origine medica e si riferirebbe a quel momento – krisis – dell’evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo. E critico è il medico che sa ravvisare quel momento, influenzando così la prognosi. La critica d’arte come attività  specifica compare, in effetti, in un momento in cui, dopo tanto risplendere, l’arte comincia ad essere preda della malattia o di ciò che Manet – che ne fu uno spettatore consapevole – chiamerà  la sua “decrepitudine”. L’attività  critica diventa un rimedio a questo male. Il critico è, dunque, una invenzione recente, che risale all’incirca al XVIII secolo. Non vi era crisi nell’arte arte antica, nell’arte d’Antico Regime. Non vi erano dei “critici” ma dei giudici, incaricati di verificare la conformità  delle opere a dei canoni, a delle norme invariabili, a dei programmi iconografici precisi. Non si critica la muscolatura di un eroe la cui figura è conforme al canone di Policleto o di Vitruvio. Non si critica la rappresentazione di una Deposizione dipinta da un artista per un convento. Si verifica se esse siano conformi a dei programmi, dei trattati di proporzione, dei dogmi religiosi, dei paradigmi.
Credo che sia proprio nel momento in cui il corpo dell’arte si ammala, che il critico d’arte entra in scena. Pensiamo a Diderot e alle sue critiche dei Salons, scritte quando le opere d’arte non rispondono più a una committenza pubblica, religiosa o principesca, ma sono l’espressione di un gusto individuale in vista di un pubblico profano. È anche il momento in cui la nozione di “Belle Arti”, rispondente a regole, canoni, teorie, paradigmi, scompare a profitto de “l’Arte” tout court, qualità  propria ed inimitabile di un individuo che si vuole creatore e si crede un genio. È allora che, a partire dal 1750, in corrispondenza con questa scomparsa, nasce l’Estetica, una nuova scienza che si accinge a prendere in esame l’infinita varietà  delle sensazioni e la diversità  delle sensibilità  corporee, senza più tener conto dei canoni antichi. Fintanto che l’arte era destinata agli Dei e ai Potenti, la valutazione critica – fenomeno umano, troppo umano – non aveva alcun senso. È quando l’arte diventa oggetto di diletto per dei privati che vediamo l’emergere di una critica privata e di quel bizzarro mestiere – a malapena un mestiere – a cui andrà  il nome di critico d’arte.
Fin dalla sua origine, tuttavia, l’arte è sempre stata sottomessa alla parola. La formula di Cicerone, docere, delectare, movere, che definisce l’arte della parola, la retorica, verrà  presto estesa all’arte plastica, l’arte delle forme e dei colori, anche essa capace di eloquenza e, dunque, di “ben dire”. Nicolas Poussin – ancora lui! – farà  propria la formula: docere et delectare. Colui che parla dell’arte, l’oratore, il critico, sarebbe, in fondo, la voce che spiega e che forse impartisce direttive alle voci del silenzio, alle voci delle Belle Arti. Non ci dimentichiamo che Fidia stesso fu un oratore e che, in musica, l’Offerta musicale di Bach viene composta sul filo della lettura dell’Istituzione oratoria di Quintiliano. Quel che bisogna conservare, e non criticare, è questo dialogo tra le arti – la pittura, la musica, l’architettura, la retorica – perché, pur rispondendo a discipline diverse, esse obbediscono tutte alla stessa armonia. Eppure il dialogo è venuto meno. Il tempo in cui un’unica e uguale armonia dettava le leggi di un quadro, di una composizione musicale, di un’architettura o di un corpo umano si è concluso. Nato da questo dialogo spezzato, un nuovo regime si instaura a partire dal momento in cui il critico d’arte si fa carico della responsabilità  che fino ad allora era stata di pertinenza dello scrittore, del musicista, del poeta, per diventare il ventriloquo di un’arte che, privata del suo rigore retorico, è più muta e confusa che mai. E – peggio ancora – per imporsi come una sorta di spettro che viene ad abitare il corpo muto della pittura, fino a dirigerne dall’interno gesti e atti. Una critica d’arte? Piuttosto un magistero sconfinante con l’ossessione spiritica.
Se i programmi iconografici o le regole estetiche scompaiono è allora a profitto di programmi politici, presto chiamati manifesti. Il critico non può che mettersi al servizio di un programma, diventa un portavoce, meglio ancora un profeta che apre la via e che battezza: la sua missione non è più quella di difendere un canone ma una causa. Da consigliere delle corti e dei salotti a eminenza grigia del regime il passo sarà  breve. Se la politica si è estetizzata, presto sarà  l’estetica a politicizzarsi. I nuovi “critici” saranno Bottai o Lounatcharski, ma presto anche Jdanov o Goebbels (egli stesso scrittore), al servizio di despoti capaci di ridurvi al silenzio, all’ergastolo. La critica non ha più posto nella divulgazione di un’arte che è ridiventata un’arte ufficiale e di culto. Il fatto che ogni gesto sia codificato, ogni attitudine conforme, ogni sorriso sottoposto a verifica, ma anche ogni colore vagliato esclude l’intervento di qualsivoglia esercizio “critico”. Questo va da sé. Ma, a rischio di apparire paradossali e provocatori, andiamo oltre, in direzione dell’arte “borghese” favorevole alla critica “formalista”: quale critico avrebbe osato, negli anni ’30, criticare le forme dell’avanguardia, che nel frattempo erano diventate delle formule? Chi avrebbe osato criticare la doxa del cubismo, o le prescrizioni maniacali degli adepti dell’astrazione geometrica alla Mondrian? Una volta di più, il critico non era un compagno di strada, ma colui che forniva le formule, i programmi. Impone le parole d’ordine, le formule, i manifesti e all’artista di ubbidire. L’impostura si spingerà  ancora più lontano quando, negli anni ’60, finito da tempo il programma utopico delle “avanguardie”, si continuerà  nondimeno a usare il termine “avanguardia”, a servirsene come di un marchio di fabbrica, di uno slogan di cui il critico diventa allora l’uomo sandwich. 
Più tardi, negli anni ’90, quando l’impostura divenne ancora più evidente, si inventò il termine di “arte contemporanea” per distinguere colui che nella attuale produzione emergeva munito di una qualità  che lo rendeva – lui e lui solo – capace di garantire della qualità  della “contemporaneità ” come di un grado superiore di presenza al momento presente, e che fa sì che Jeff Koons sia più “contemporaneo” di Botero – quando in realtà  sono entrambi ugualmente kitsch. Il critico ridiventò allora il personaggio centrale di questa manipolazione. C’era bisogno di una operazione singolare, di una sorta di catalisi perché la sua parola assumesse la forza di un dogma. La catalisi la si ottiene aggiungendo ai suoi lati due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il mercante è quello che fornisce la mercanzia, lo storico d’arte colui che ne attesta la provenienza. Al critico non resterà  più che autentificarne la qualità  e tentare di descriverla con le sue parole. Se parlo con tanta convinzione di questo processo è perché io stesso ne ho fatto parte. Non sono più un critico d’arte da molto tempo, ma lo sono stato quanto basta per avere la misura dei limiti di questo strano mestiere.
Nel 1970 creai, poi diressi per quattro anni, una rivista di avanguardia, Chroniques de L’Art Vivant. Assai prima di riviste come Art Press o Teknikart, che oggi danno il “la” in fatto di mode estetiche, L’Art Vivant fu la prima a lanciare in Francia la passione dell’avanguardia. Vi apparvero i primi articoli su artisti, allora pressoché sconosciuti, come Boltanski e Buren – ne fui l’autore – e sulle prime stelle della Scuola minimalista americana come David Judd o Robert Ryman. Vi pubblicammo anche le prime interviste a Joseph Beuys e un numero speciale consacrato agli artisti dissidenti dell’Unione Sovietica, che mi valsero una convocazione minacciosa dell’Ambasciatore dell’Urss a Parigi. Nel 1974 misi fine a questa esperienza. Avevo sperimentato l’impostura che poteva rappresentare una pubblicazione consacrata a dei movimenti così detti d’avanguardia. Avevo visto com’era possibile, nel giro di sei, otto mesi, lanciare sul mercato dell’arte nomi o prodotti. La condizione era quella di riuscire a creare quella triade miracolosa di cui ho parlato prima: mettere d’accordo fra di loro per osannare lo stesso artista, un conservatore di museo, tutto eccitato di riscaldarsi ai fuochi dell’attualità , uno storico d’arte, ugualmente felice di lasciare i suoi studi per riscaldarsi al calore degli atelier dei giovani creatori, un giovane critico ambizioso e naturalmente un mercante per aiutare, sul piano materiale, questa trinità  a rivelare al profano i misteri dell’Avanguardia… Potei inoltre verificare, come aveva mostrato McLuhan, che il supporto, il medium, diventava il messaggio. Poco importava l’oggetto: era la sua esposizione, la sua messa in valore, il modo di fotografarlo, le parole per descriverlo che lo facevano esistere, non il suo valore intrinseco. Questa esperienza delle arti fittizie e dei mercati ingannevoli mi allontanò per sempre dalla critica. Vi acquistai una certezza: che la storia dell’arte moderna e contemporanea è fatta di cliché – nel senso quasi tecnico del termine – e che era venuto il momento di scriverla.
Intrapresi questa riscrittura in due modi o su due scale. Intendevo fare vedere che la concatenazione delle scuole e dei movimenti d’avanguardia era una illusione retrospettiva di cui bisognava liberarsi. Così ideai due mostre che mi valsero la reputazione di reazionario o di revisionista. Nei Realismi tra le due guerre del 1981 (Centre Pompidou), cercai di smentire la doxa secondo cui l’arte tra le due guerre aveva segnato il trionfo dell’astrattismo e l’inizio del primato dell’arte americana. In realtà , tra le due guerre, dalla “Neue Sachlichkeit” tedesca ai “Valori Plastici”, si era fatto ritorno al soggetto, al classicismo e alla forma. E nel 1995, per il centenario della Biennale di Venezia, tentai ugualmente, con la mostra Identità -Alterità , di dimostrare che l’arte del XX secolo aveva segnato il trionfo del ritratto. Al contempo le mie curiosità  sull’arte di oggi mi spinsero a cercare degli artisti viventi il cui genio potesse corrispondere a questa storia rivisitata di cui cercavo di riscrivere le tappe. Si trattava ancora di critica? Sì se, come abbiamo visto, si intende con ciò l’arte del terapeuta che formula una diagnosi. O ciò che Kant aveva definito come critica in relazione alla Ragion pura e da cui noi non avremmo mai dovuto scostarci: una rivoluzione copernicana del nostro modo di comprendere il mondo a prescindere dalle mode e dai capricci dei nostri sensi.
(Traduzione di Benedetta Craveri)


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