La primavera di Praga riscritta in chiave di allegoria

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Ossessioni, catastrofi e fantasmagorie sono i tratti ricorrenti delle ultime opere dello scrittore ceco Jachym Topol, che torna in libreria con il romanzo Artisti e animali del Circo socialista, pubblicato in ceco nel 2005 e ora tradotto da Laura Angeloni per Einaudi (pp. 334, euro 15,50). A differenza dei due romanzi pubblicati in italiano per Azimut, Lavoro notturno (2006) e Andel. L’incrocio dell’angelo (2008), in questo libro il talento visionario di Topol non è più legato a scene ed episodi singoli, ma contamina l’intera superficie della pagina, costringendo il lettore a un notevole sforzo per seguirlo nella sua poetica dell’iperbole assoluta. Le singole componenti della narrazione, per quanto funzionali alla fantasmagorica allegoria della vicenda cecoslovacca tra la presa del potere da parte dei comunisti nel 1948 e la repressione della Primavera di Praga nel 1968, oppongono infatti notevole resistenza alla logica comune. Dominato dall’elemento visuale, il romanzo è difficilmente riducibile a una trama, visto che l’autore, rinunciando alla logica interna del testo, ha forzato con violenza le regole della forma romanzesca.
In Artisti e animali del Circo socialista gli outsider e i reietti vivono sulla propria pelle gli echi di una storia sempre più disumana e priva di scrupoli, vestendo i panni di un gruppo di orfani che, divisi tra i più piccoli «camicilunghi» e i più maturi «pantaloncini», sono rinchiusi in uno stravagante istituto rieducativo ribattezzato «casaCasa» e presi di mira prima dalle cure amorevoli ma spietate delle suore e, dopo la presa del potere da parte dei comunisti, di una coppia di militari guerrafondai e depravati. Questo universo narrativo, claustrofobico e limitato, riduce l’orizzonte visuale dei protagonisti («canaglie, bastardi, psicopatici, figlie di puttane e di stranieri»), isolati sia dall’esterno, sia dal proprio passato, legato a una lontana «terra delle ombre». Come spesso avviene nei romanzi di Topol, è un protagonista sdoppiato a vivere sulla propria pelle la vicenda: in questo caso si tratta di Ilja che deve occuparsi del fratello deforme, «Scimmiotto», poi torturato senza pietà  dai compagni. Dopo questo sacrificio il suo ruolo è ricoperto da Margas, alter ego di natura quasi onirica, che reitera il gioco di scatole cinesi, ognuna delle quali contiene un sosia diverso, simbolo di un’ossessiva e mai appagata ricerca di sé. 
L’azione si svolge nella casa padronale di Sirem, paesino a ottanta chilometri a ovest di Praga, con un importante passato letterario legato al suo nome tedesco (Zà¼rau), perché qui Franz Kafka scrisse i suoi celebri Aforismi. Il motivo kafkiano non è del resto casuale, visto che in varie interviste Topol ha parlato di una prima versione del romanzo contenente una parte legata allo sfruttamento commerciale del soggiorno di Kafka a Sirem, poi eliminata nella stesura finale. Di kafkiano sono comunque rimasti nel romanzo tanto la passione per l’iperbole quanto un certo gusto per l’allegoria criptica, fitta di riferimenti a strati culturali del passato, non sempre facilmente decodificabili.
Molto diversa per tono e stile è la seconda parte del romanzo, ambientata nel 1968, benché i protagonisti siano gli stessi bambini, sospesi in un tempo arbitrariamente compresso. Se l’ambientazione della prima parte era rappresentata da un luogo chiuso, ora gli spazi si dilatano. E la casa, precedentemente simbolo dell’ordine, è adesso governata dal caos del gigantesco mondo esterno, stravolto dalla guerra ceco-russa provocata dall’ammutinamento di tutto un paese guidato dall’indomito leader Sasa Dubcek. Ritroviamo difatti Ilja appollaiato su un carro armato russo che, in un continuo gioco delle parti (sabotatore/collaboratore), cerca di tenere le truppe sovietiche lontane da uno dei centri dell’insurrezione armata cecoslovacca contro l’invasione, sorto proprio a Sirem nel nome del culto della Cechia, leggendaria creatura che veglia sul popolo ceco. 
L’unità  in cui viene a trovarsi Ilja ha lo stravagante compito di bonificare il territorio per trasformarlo in «una zona da consacrare allo svago e alla cultura», gigantesco parco divertimenti in cui si concentrerà  il meglio del Circo socialista (difficile immaginare metafora più surreale del teatro dell’assurdo in cui è stata trasformata la Cecoslovacchia nei vent’anni che hanno preceduto il crollo del comunismo nel 1989). La topografia impazzisce e i singoli episodi, ironiche allusioni al modello della letteratura di guerra, si trasformano in specchi deliranti che riflettono una realtà  frantumata e stravolta (le carcasse mostruose degli animali circensi trucidati dalla guerra fanno più volte pensare al protagonista di essere vittima di un attacco di follia). Ilja non riesce però a uscire dal vortice che trascina la sua esistenza verso la casa padronale, si rende progressivamente conto che per lui è impossibile abbandonare quel luogo. Anche perché l’attraversamento di frontiere insignificanti, per quanto sempre accolto con gioia («E sono fuori»), rappresenta tuttavia solo una fase temporanea, prima che la forza centripeta inizi a funzionare di nuovo, trascinandolo a ritroso sui propri passi: «Poi andrò nel rifugio di guerra. A vedere se l’ultima famiglia di Sirem è ancora viva. Mi metto subito in marcia, allora. Torno a casa mia».
Se la prima parte del romanzo è legata alla scoperta del mondo attraverso il linguaggio, la seconda ne rappresenta la negazione, il momento in cui la realtà  è sottomessa alle fantasie dell’inconscio apocalittico dell’autore. Nell’ansia di Topol di metaforizzare la realtà  non viene tralasciato nulla, nemmeno la bomba atomica surrealmente trasformata in uovo di dinosauro. E anche alla fine della storia l’incontro con il proprio sosia non fa che confondere definitivamente sogno e realtà  («come se davvero non appartenessero alla realtà  ma a uno dei sogni di Margas… Secondo me Margas sta sognando e il suo sogno si sta svolgendo davanti ai nostri occhi…»). E l’apoteosi onirica non può che culminare nella distruzione della casa, culla, prigione e tomba del protagonista. 
Nella traduzione italiana si è persa la metafora centrale del romanzo, intitolato in ceco Kloktat dehet («Gargarismi al catrame»), immagine proustiana rovesciata che rievoca non solo i bagni con il sapone al catrame che le suore facevano nella «casaCasa», ma soprattutto la punizione che seguiva alle menzogne: «I gargarismi con l’acqua e il catrame dovevamo farli anche per altre bugie. L’acqua al catrame bruciava la gola. Passando attraverso la gola e il naso anche la bollicina più piccola si trasformava in una bolla gigantesca che raschiava e faceva un gran male». Quello del catrame è inoltre allo stesso tempo un simbolo della verità  della narrazione, tanto che alla fine il protagonista affermerà  non a caso: «scrissi la verità  su tutto quello che avevo vissuto. Scrissi della guerra dei Cechi e degli Slovacchi contro gli eserciti dei cinque stati, ed è tutto vero. Se avessi mentito anche una sola volta mi toccherebbe fare talmente tanti gargarismi che non basterebbe tutto il catrame del mondo».
Artisti e animali del Circo socialista rimanda quindi a un incubo, ma vuole essere anche una testimonianza, il resoconto di una vicenda che non si è mai svolta – un romanzo allegorico su ciò che poteva essere e non è stato. O meglio, su ciò che è avvenuto solo nella fantasia di Topol. E si sa che, a differenza di un romanzo, la fantasia non deve rispettare alcuna regola…


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