Una proposta che non si può rifiutare

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«O così, o pomì», recitava un vecchio spot. Ma a qualcuno la sortita iniziale del ministro Elsa Fornero – «se faremo insieme questa riforma, siamo contenti, altrimenti il governo cercherà  comunque di farla» – sembra più simile a quella micidiale battuta («una proposta che non si può rifiutare» ) che faceva da tormentone efficacissimo nella saga Il padrino.
Suggestioni a parte, lo schema del governo non potrebbe essere espresso in modo più ultimativo e chiarificatore. «Abbiamo un vincolo di tempo e di risorse», ha spiegato alle controparti Fornero, ormai investita ufficialmente del compito di coordinare questa partita (Mario Monti era assente anche ieri; come se la questione per lui fosse già  risolta); «dobbiamo chiudere in due o tre settimane».
Ma chiudere cosa? Qui la materia diventa molto più fumosa. «L’art. 18 è stato messo sul tavolo», gongola il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Che però sembra lamentarsi dell’eccessiva nonchalance con cui il governo procede: «nessun documento è stato presentato dal ministro». Ma è solo una piccola nube, visto che la reintegra sul posto di lavoro rimarrebbe soltanto per i «licenziamenti discriminatori» (secondo quali parametri? le opinioni politiche e sindacali ci stanno dentro? o solo le scelte sessuali e il colore della pelle?). Il ministro, infatti, avrebbe dichiarato di voler ammettere i «licenziamenti per motivi economici»; un controsenso, se la si dovesse prendere in parola, perché «per motivi economici» vengono licenziate ogni giorno centinaia di persone, tra uno «stato di crisi aziendale» e l’altro. Evidente, dunque, che sotto quella formula si nascondono ben altri «motivi».
La resistenza sindacale non sembra davvero eccessiva. Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, ha invitato l’esecutivo a «usare molta cautela, perché siamo in una fase delicata». Susanna Camusso, pari grado della Cgil, ha apprezzato la «disponibilità  del governo a trovare un accordo». Vecchi frequentatori di trattative sindacali spiegano che «se accetti di parlare di certe cose, vuol dire che le hai già  digerite». Nessuno, comunque, sembra aver posto veri limiti a una discussione che nel merito si annuncia durissima per chi dovrà  sottostare alla nuova «riforma».
Sia dal governo che dai sindacati, infatti, si spiega con dovizia di ripetizioni che ci si muove «su obiettivi condivisi». Ma l’unico soggetto che mette sul tavolo «soluzioni» per raggiungere quegli obiettivi è il governo.
Il solo punto su cui Fornero sembra aver accennato un minimo passo indietro è relativo agli ammortizzatori sociali. Oltre alla cassa integrazione ordinaria (applicata solo per le crisi temporanee o imprevedibili), dovrebbe restare anche la straordinaria (per crisi o ristrutturazione aziendale). Ma nessuno sa dire ora che fine farà  la mobilità , che pure ha permesso di risolvere molte crisi senza buttare la gente per strada senza più nulla. Non c’è da essere per niente ottimisti, dunque.
Anche perché i sindacati qualche richiesta l’avevano anche portata. A proposito di «esodati» (i prepensionati o i «precoci» che ora non possono più andare in pensione, ma intanto sono usciti dal lavoro: 70.000 persone), per esempio, invitavano a trovare soluzioni nemmeno troppo difficili o costose. Fornero è stata invece di una durezza degna di miglior causa: «la riforma delle pensioni non si tocca, ha determinato la riduzione dello spread».
Del resto «i mercati» sono lo straccio rosso sventolato davanti a ogni perplessità . «Il mercato, noi e voi sappiamo che questa è un’occasione per fare una cosa buona per il mercato, e che, se non la cogliamo, perdiamo», spiega Fornero. Con punte di ideologia difficilmente tollerabili per un ministro che sta ridisegnando la vita di decine di milioni di persone. Un esempio? Riprendendo il tema dell’art. 18, a cui viene disinvoltamente addebitata la «responsabilità » per l’esistenza della precarietà , ha detto «saremo giudicati dagli italiani che hanno subito esclusioni e non hanno avuto prospettive, appiattendosi su precarietà  e basse aspirazioni». Come se togliendo diritti a chi ne ha, senza nemmeno darne di equivalenti a chi non ne ha, si facesse in qualche misura «una cosa equa». 
O anche: «rafforzare la posizione dei lavoratori, sia di quelli che già  lavorano che di quelli che lo cercano». Quale «rafforzamento» sia perseguibile con meno tutele è un mistero che ci verrà  svelato non prima di dieci giorni. È questa la scadenza fissata per il prossimo incontro con sindacati, Confindustria e altre associazioni di categoria. In quella data probabilmente il ministro arriverà  con un «pacchetto completo», ovviamente «intrattabile» perché «i mercati se lo aspettano». Nel frattempo, le parti potranno vedersi tra loro o con esponenti del governo, magari per «gruppi di lavoro flessibili». Lasciando comunque agli interlocutori – ripetiamo: che discutono senza avere nemmeno un documento ufficiale davanti agli occhi – «la libertà  di organizzarvi come meglio credono». Tanto, vien da concludere, il governo sa già  quel che vuole fare e del parere delle «parti» (Confindustria e Abi escluse, visti i vantaggi che imprese e banche riceveranno da queste misure) sa fare volentieri a meno, come ha detto in premessa lo stesso ministro. È o non è «una proposta che non si può rifiutare?


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