Il miracolo? Più occupati, ma pagati meno e più precari

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Nel dicembre scorso erano ufficialmente registrati in Germania 2.780.000 disoccupati. Nel gennaio 2012 erano aumentati di 302.000 unità  a 3.082.000. Sono così tornati a superare la soglia simbolicamente rilevante dei tre milioni. Anche la quota di disoccupazione è aumentata di 7 decimi di punto rispetto al mese precedente, al 7,3%. Ma niente paura: all’agenzia federale per il lavoro di Norimberga assicurano che l’incremento è tutto attribuibile ai soliti influssi stagionali. D’inverno i cantieri edili si fermano. Rallenta l’agricoltura. I ristoranti non possono sistemare tavoli all’aperto. Dopo natale il commercio si libera del personale supplementare ingaggiato per le feste. Se si depura il dato dai fattori stagionali, i disoccupati sarebbero diminuiti di 34.000 unità  in confronto al mese precedente.
Quel che più conta è il confronto col gennaio 2011. Rispetto a un anno fa il computo delle persone senza lavoro si riduce di 264.000 unità . E anche la quota di disoccupazione, che nel gennaio 2011 era al 7,9%, è scesa da allora di 6 decimi di punto. È dunque legittimo scrivere, come fa la Frankfurter Allgemeine, che «il miracolo del lavoro continua».
Di «miracolo» si parla dall’inizio di gennaio, quando l’ufficio federale di statistica constatò che in media nel 2011 gli occupati in Germania erano stati per la prima volta più di 41 milioni. Più precisamente 41,04 milioni, con un incremento di 535.000 persone rispetto al 2010. Mentre la media annua di 2,9 milioni di disoccupati nel corso del 2011era la più bassa mai registrati nell’arco degli ultimi 20 anni. Rispetto ai 4,9 milioni di disoccupati del 2005, col cancelliere socialdemocratico Schrà¶der, si è fatto un bel passo avanti.
Su questi vistosi record il governo Merkel batte la grancassa. Il ministro dell’economia, il liberale Philipp Rà¶sler, ha fatto affiggere con un budget di 330.000 euro in tutte le grandi stazioni ferroviarie cartelloni che recitano «Grazie Germania. Ora tante persone, come mai prima, hanno un lavoro». Ma di che lavoro si tratta? Non c’è bisogno di scavare troppo per scoprire che spesso si tratta di lavoro a tempo parziale, precario, mal pagato.
Conviene per esempio guardare i dati delle ore lavorate. Nel 2000 sono state contate 57,7 miliardi di ore di lavoro retribuito, nel 2010 si era più o meno allo stesso punto, con 57,3 miliardi di ore. Se questo monte-ore si è distribuito su più spalle, e chiaro che a aumentare sono stati soprattutto i rapporti di lavoro part-time.
Il conglomerato di 41 milioni di occupati segnalato nel 2010 sussume situazioni assai diverse. Occorre innanzitutto distinguere tra i 4,5 milioni di lavoratori autonomi e di parenti che li aiutano in imprese di famiglia e 36,5 milioni di lavoratori dipendenti. Di questi solo 29 milioni hanno un lavoro passabilmente regolare e protetto, con l’obbligo di versare pienamente contributi assicurativi per la pensione, l’assistenza sanitaria, l’assegno di disoccupazione (a carico del lavoratore per metà , del datore di lavoro per l’altra metà ). Più complesso lo status degli altri 7,5 milioni (circa il 30 per cento). 
Circa 1,2 milioni non vengono conteggiati tra i disoccupati (definiti come coloro che lavorano meno di 15 ore a settimana, e vorrebbero lavorare di più) ma compongono la cosiddetta «riserva silenziosa» della schiera dei senza lavoro. Si tratta di persone inserite in programmi di riqualificazione professionale, o di avvio a lavori socialmente utili in cambio di un compenso di un euro all’ora. Oppure di persone che avendo superato i 58 anni di età  non vengono di fatto considerate come effettivamente proponibili per un nuovo impiego.
Gli altri sono «mini-jobber», persone che guadagnano fino a 400 euro al mese. Costoro – in buona parte donne – sono esonerati dal versamento di contributi assicurativi, a carico del solo datore di lavoro in misura assai ridotta. E in vecchiaia finiranno in carico all’assistenza sociale. Nell’aprile 2011 si contavano 7,3 milioni di mini-jobber. Non pochi di loro affiancano uno di questi lavoretti a un primo lavoro, che però non dà  da solo abbastanza per vivere.


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