La società  è precaria

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Frammentato, disperso, inafferrabile, ma tuttavia presenza stabile in ogni documento politico istituzionale per segnalare come la crescita delle diseguaglianze di reddito mette a dura prova la tenuta del legame sociale e sia fonte di possibili sovvertimenti della democrazia costituzionale. Il lavoro è stato ridotto a «emergenza sociale», anche se le politiche economiche dei governi della vecchia Europa e nei claudicanti Stati Uniti sono sempre all’insegna della continuità , cioè al riprodurre le stesse condizioni che hanno reso il lavoro sinonimo di povertà , di precarietà , di assenza di futuro. Allarmi e denunce che non arrestano quella «guerra a bassa intensità » contro la costituzione materiale e formale che nel secolo passato hanno impedito ai governi nazionali di equiparare lavoro e povertà . È dalla fine degli anni Settanta che il lavoro è infatti pensato come una variabile dipendente dello sviluppo capitalistico. Ed è per questo motivo che tutte le conquiste novecentesche del movimento operaio dovevano e devono essere cancellate per garantire appunto uno sviluppo economico emendato dal conflitto di classe. 
Ostacoli da demolire
Negli anni Settanta era il salario che doveva diventare una variabile dipendente e solo nel decennio successivo è iniziata la lunga marcia neoliberista affinché il lavoro sans phrase diventasse un fattore da vincolare alla sua produttività , alla concorrenza e alle necessità  di innovare sia il processo produttivo che i prodotti. La deregulation del mercato del lavoro nasce proprio su questo crinale. Da allora la cancellazione della legislazione del lavoro è stata la stella polare che ha orientato l’azione di governi, sindacati e imprenditori. E ogni volta che lo sviluppo economico entrava in crisi, il refrein è sempre stato lo stesso: il lavoro doveva essere ridotto coercitivamente a forza-lavoro, cioè a merce. Non spaventi l’uso di un lessico che ha radici in un non lontano passato. Al suo posto se ne può scegliere un altro, meno ancorato a una storia che si vuole maledetta. Ma in ogni caso lontano da quella dissimulazione operante nella discussione pubblica, in base alla quale i processi di valorizzazione del lavoro vivo sono l’ostacolo da rimuovere per garantire benessere e crescita economica. 
La riduzione del lavoro a simbolo di povertà  e a variabile dipendente hanno una loro radice nell’incapacità  dello sviluppo capitalistica a garantire la piena occupazione, come invece era accaduto in Europa e in forma diversa negli Stati Unit in quelli che sono, nostalgicamente, chiamati i «gloriosi trent’anni» seguiti alla fine della seconda guerra mondiale durante i quali la disoccupazione di massa era l’incubo delle cancellerie europee e statunitense, perché troppo forte era ancora il ricordo di come l’espulsione di milioni di uomini e donne dal mercato del lavoro aveva favorito, in Germania, il nazismo. Ma, a differenza degli anni Venti e Trenta del Novecento, la prospettiva attuale di un forzato non-lavoro è stata articolata attraverso la precarietà , cioè quella condizione lavorativa ed esistenziale sempre in bilico tra lavoro e non lavoro. 
Gli «intermittenti» passano cioè da un indesiderato arruolamento nell’«esercito industriale di riserva» all’altrettanto indesiderato immissione in «bacini» dove le imprese attingono lavoro vivo in base alla contingenza economica. Ma se i classici della teoria economica stabiliscono che i «non occupati» dovevano servire a comprimere i salari – fattore divenuto così evidente che se ne sono accorti tutti gli organismi sovranazionali, dall’International of Labour Organization all’Ocse – nel capitalismo contemporaneo la precarietà  serve anche a favorire le condizioni che favoriscono la «cattura» da parte delle imprese delle capacità  innovative del lavoro vivo.
La lunga marcia liberista
La moltiplicazione delle tipologie dei contratti di lavoro non serve dunque a governare l’esercito industriale di riserva, ma a legittimare la trasformazione del lavoro vivo in una «fanteria leggera» mediamente qualificata, capace di produrre innovazione e di gestire un processo produttivo sempre più complesso e tuttavia da usare con discrezione a seconda delle necessità . 
Non stupisce quindi che anche nella provincia italiana le alte cariche istituzionali, di fronte al rischio di default dello stato, invitano nuovamente a farsi carico di questo supposto interesse generale che è la riduzione del lavoro a merce. E non suscita neppure meraviglia che il custode della Costituzione, Giorgio Napolitano, o il direttore del quotidiano la Repubblica evochino il «terribile» Settantasette – meglio il convegno sindacale all’Eur in cui il salario divenne fu rubricato come «variabile dipendente» nell’agenda politica – come l’episodio a cui fare riferimento per compiere l’atto finale della lunga marcia liberista alla deregulation del mercato del lavoro. Atto finale delegato ai «tecnici» perché capaci di incarnare appunto l’interesse generale.
Ma questa è storia nota. Rimane sempre il problema di come interrompere questa darwiniana l’«amministrazione» del mercato del lavoro. Le proposte in campo sono molte, ma quasi sempre contraddistinte da una insopportabile tensione «dirigista» che fanno del lavoro vivo sempre oggetto di interventi «dall’alto» e raramente passano per processi di autonoma organizzazione dello stesso lavoro vivo. Elemento indispensabile per una composizione sociale che ha sempre meno la fabbrica, o l’impresa, come spazio condiviso sia del regime di sfruttamento, ma anche della sua critica e contestazione. 
La nuvola innovativa
È da collocare in questo fosco panorama il volume collettivo, curato da Federico Chicci e Emanuele Leonardi, Lavoro in frantumi (Ombre corte, pp. 222, euro 20). Testi eterogenei nello stile e nei temi, va da sé, ma tuttavia uniti da un filo rosso: la necessità  di un ordine del discorso attorno al lavoro vivo che scalzi dal centro della scena la sua rappresentazione neoliberista che ha tenuto banco per oltre un trentennio. Uno degli aspetti che emerge è che le diverse tipologie contrattuali non prefigurano l’emergere di una forma specifica di lavoro, bensì la presenza di molteplici forme giuridiche all’interno dello stesso processo produttivo che possono essere attivate a seconda della contingenza. Si può essere lavoratore dipendente, per poi diventare un lavoratore a progetto, interinale, a partita Iva non perché si svolge una mansione, bensì perché l’impresa si riorganizza continuamente per mantenere, se ne ha, un vantaggio competitivo o per fronteggiare una contingenza economica sfavorevole. 
È questo il secondo aspetto che caratterizza gran parte degli interventi dedicati a realtà  metropolitane o cittadine fortemente caratterizzate da una «specializzazione produttiva» in crisi (la Torino della Fiat, ma anche del Politecnico, la Bergamo della Dalmine); oppure quando gli autori affrontano il rapporto di crescente interdipendenza tra formazione universitaria e mondo delle imprese, all’interno del quale gli atenei sono da considerare nodi di una rete produttiva che tende a coincidere con la metropoli. 
Una trasformazione dell’università  già  testimoniata da molti studi, come i rapporti della Fondazione Alma Mater e della recente inchiesta della Fondazione Agnelli su I nuova laureati (Laterza, pp. 117, euro 15). In entrambi i casi, al di là  dei nuovi modelli di formazione emergenti dal «processo di Bologna», l’università  è ritenuta il nodo «debole» di un processo produttivo che ha bisogno di un’innovazione permanente. Gli studenti non solo devono essere «addestrati» alla flessibilità  – e dunque alla sua traduzione esistenziale e lavorativa, la precarietà , appunto – ma diventare la cloud in cui prende forma proprio quella innovazione che serve alle imprese. Questa potrebbe essere una spiegazione del perché da alcuni anni a questa parte in tutte Europa si sono sviluppati forti movimenti sociali che hanno sottolineato non solo la «miseria della condizione studentesca», ma la precarietà  della loro condizione sociale. Ed su questo crinale che si snodano gran parte dei saggi che si propongono di mettere al centro della riflessione l’azione dei movimenti sociali incentrati sulla critica e per l’uscita dalla precarietà  come condizione si «minorità » e di sfruttamento.
Robinsonate postmoderne
Un libro dunque da leggere con attenzione, anche perché ha il pregio di rappresentare, al di là  della specificità  dei singoli contributi, una rielaborazione di molte analisi sulle metamorfosi del lavoro che hanno caratterizzato quel pensiero critico che si è soliti chiamare postoperaismo. Rimane tuttavia in evidenza che dentro la metamorfosi del lavoro si fanno strada molti luoghi comuni che rinviano appunta alla rappresentazione dominante sulla precarietà . Come quella che guarda alla precarietà  come una fase di transizione verso quella figura idealtipica dell’individuo proprietario che diventa, una volta cancellati i diritti sociali di cittadinanza, un imprenditore di se stesso. 
Una «robinsonata» che continua ancora ad essere declamata come la soluzione alla precarietà . Così come un luogo comune continua a rimanere l’equazione tra precario e giovane. È indubbio che gran parte dei nuovi entrati nel mercato del lavoro siano giovani; così come è evidente che i loro fratelli maggiori e padri siano invece lavoratori a tempo indeterminato. Ma la precarietà  non è solo una prerogativa generazionale, bensì una forma di governo di tutto il lavoro vivo. Funziona cioè come dispositivo giuridico che legittima l’intermittenza nel mercato del lavoro, al di là  delle differenze generazionali. 
Rimane, ovviamente, la ricerca di una via d’uscita da questo infernale laboratorio di «vite precarie». Il reddito di cittadinanza è certo lo strumento per non subire il ricatto della necessità , ma non garantisce certo l’autonomia del lavoro vivo. Un lavoro vivo inoltre indisponibile a «sintesi» imposte dall’alto, ma disponibile a processi ricompositivi «dal basso». E se i frantumi sono l’espressione della miseria del presente, l’autonomia del lavoro vivo costituisce la ricchezza del possibile.


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