I malumori da Est a Ovest Nel fronte degli scontenti anche i «primi della classe»

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Alla fine è stato quadrato il cerchio, hanno firmato in 25 su 27: ma dietro quelle firme ritardate fino all’ultimo, o all’ultimo istante congelate, sì è intuito un gran malumore diffuso. E uno schieramento trasversale, esterno ma anche interno all’eurozona, a metà  fra Est e Ovest, con una discreta presenza nei suoi governi di uomini riconducibili agli schieramenti di centrosinistra. Paesi economicamente solidi e altri più fragili, accomunati non soltanto dai soprassalti d’orgoglio ma anche dal senso di incertezza crescente per il futuro che incombe. 
Qui a Bruxelles ognuno ha portato il suo linguaggio, e la sua motivazione specifica: da quella (apparentemente) solo simbolico-formale della Polonia, condivisa da Repubblica Ceca e Ungheria («Se firmiamo il Patto vogliamo partecipare anche noi ai vertici dell’eurozona… e così dimostrare che l’Europa è unita, non divisa»), alle ragioni più concrete di chi ha contestato il patto di bilancio merkeliano, così come le brusche intimazioni merkeliane ai governanti di Atene. Quando non espresso in dichiarazioni ufficiali al tavolo del negoziato, lo scontento è emerso da commenti obliqui, prudentissimi, ma non per questo meno chiari. E qui, c’è stata qualche sorpresa. Per esempio la Finlandia, nell’eurozona uno dei quattro Paesi rimasti con un rating da «tripla A» insieme con la Germania, e fino a oggi fedele alleato della linea Merkel, ha buttato sul tavolo del negoziato due micce fumanti, definendo «inutile e dannoso» il trattato sul patto di bilancio: parola, lanciata da Helsinki, del ministro degli esteri Erkki Tuomioja. Che ha anche proclamato chiaro e tondo, dando forse voce al disagio di tanti, come l’ormai famosa «regola d’oro» dei conti in ordine abbia a che fare con «i bisogni di politica interna della Germania»; cioè con i problemi elettorali, presenti e soprattutto futuri, della signora Merkel. Non solo: lo stesso discorso, hanno commentato altri fra loro in una pausa della trattativa, potrebbe valere per Nicolas Sarkozy, pure vicino alla prova elettorale.
Una seconda sorpresa è giunta da un altro Paese ricco e con la «tripla A», il Lussemburgo, mai o quasi mai uscito in passato dalla scia di Berlino; il suo ministro degli esteri Jean Asselborn, intervenuto a Bruxelles a una riunione dei socialisti europei, pur senza nominarla ha bacchettato senza troppi riguardi la cancelliera tedesca: «Bisogna evitare di dare l’impressione che dobbiamo punire ogni cosa, regolare ogni cosa, dire “se non fai questo, rischi di essere escluso…”».
Ancora più chiara, piccata, la reazione della Repubblica Ceca, che infatti alla fine non ha firmato l’accordo. Il suo leader Petr Necas ha prima citato delle «riserve molto serie» del suo governo, e poi ha aperto decisamente il rubinetto dell’indignazione: «È difficilmente accettabile che Paesi come il nostro firmino un documento così e contribuiscano potenzialmente ai prestiti del Fondo monetario internazionale a favore delle nazioni della zona euro, senza essere invitati se non simbolicamente ai negoziati». 
Un caso a parte, è poi quello della Slovacchia: si è unita alla richiesta «partecipativa» di Praga e di Varsavia, anche se Bratislava nell’eurozona ci sta già , e quest’ultima è parsa un’ulteriore conferma dei malumori reali serpeggianti dietro le proteste simboliche. Malumori che si infiltrano nelle stesse maggioranze di governo: nella Danimarca che non sta nella famiglia dell’euro ma che è presidente di turno della Ue fino al 30 giugno, gli alleati di destra e sinistra del primo ministro Helle Thorning-Schmidt chiedono un referendum sul patto merkeliano, considerandolo una minaccia alla sovranità  nazionale. L’intesa di Bruxelles è stata firmata da quasi tutti: ma chissà  se Angela Merkel, potendo tornare indietro, direbbe ancora quelle due paroline sulla Grecia.


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