Se Omero e Borges guardano insieme i mondiali di calcio

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Ogni singolo racconto di Fantasmagonia – l’ultimo libro di Michele Mari edito da Einaudi – meriterebbe una specifica recensione. Eppure i trentaquattro articoli (tanti sono i racconti) che ne discenderebbero non sarebbero comunque sufficienti a esaurire la bellezza e la complessità  di questo libro. Servirebbero infatti ulteriori recensioni per evidenziare e indagare i legami tra i testi, i ponti di corda che li collegano, i nodi che si formano leggendo, i grumi gli incastri e gli scioglimenti. E ancora verrebbe meno la possibilità  di individuare e conoscere la sostanza che giace in filigrana in ogni storia e tra una storia e tutte le altre, qualcosa che a tratti intuiamo come se lo percepissimo con la coda dell’occhio, in un passaggio fugace, non avendo una cognizione precisa di che cosa sia ma sentendone subito la mancanza. 
Perché la letteratura, il farsi nome delle cose («ogni vero artista crea la realtà  nominandola» leggiamo in “Grecia-Argentina”, il racconto in cui Omero e Borges assistono ciechi, a bordo campo, a una finale tanto decisiva quanto immaginaria), è a tutti gli effetti un demone, ma per quanto si accumuli in pagine e pagine resiste perfidamente introvabile. 
Accetta, al limite, che ne facciamo esperienza sotto forma di presentimento.
Nei trentaquattro presentimenti di Fantasmagonia Michele Mari narra antefatti, ricostruisce origini, ordisce premesse. Fa di ogni racconto la genesi di qualcosa che conosciamo, o che supponiamo di conoscere. Per esempio rivela ciò che condusse Lewis Carroll – anzi il balbuziente Charles Lutwidge Dodgson che trasforma il suo limite espressivo in filastrocche fluide e rimate – a scrivere, dopo aver conosciuto la piccola Alice Liddel, il suo capolavoro (in “Il balbuziente”); oppure chiarisce che Emilio Salgari, «omino metodico e tranquillo», era in realtà  abitato da una forma generata dal mescolarsi del sangue di Sulgoryan e di Kraken, qualcosa che nutriva le sue narrazioni di conflitti gloriosi e di indomiti eroismi, ma soprattutto di una nostalgia implacabile per avventure inconsapevolmente già  vissute (“Mamapraciam”); e ancora, in “L’ultimo buscadero”, Mari illustra come i dubbi sul superamento di una pozzanghera possano connettersi a una bolla d’aria che deforma il vetro della bottiglia contro cui comparirà  il riflesso del gol col quale Cuccureddu regala alla Juventus lo scudetto del 1973 (ancora un fantasma, stavolta sotto l’egida di Gombrowicz). 
A volte il movimento che si produce somiglia a una dilatazione. Prendendo spunto da un passo del Principe e da una lettera a Francesco Vettori, Mari postilla ciò che è documento, lo riscrive, lo espande facendone rivelazione letteraria. E dunque dà  vita a un Niccolò Machiavelli che la sera si volge «a imago di bestia» per gettarsi sulle sue prede naturali – «una donna ignuda, un fantolino, una pecora, un cappone» (“Il centauro”); in “Ogni stagione è l’inferno” (un titolo che è da solo una narrazione), invece, separa il poeta dal negriero e poi li ricompenetra nel solo indiviso molteplice Arthur Rimbaud, così verificando che la letteratura è materia plastica continuamente alterabile, qualcosa che consente al tormentato Josef K. del Processo di raggiungere i dintorni di Pescia in cerca delle sue origini per scoprire che forse la sua strutturale legnosità  ha a che fare col burattino collodiano, o che concede al Piccolo Principe di fare a botte con Pierino Porcospino mentre nello stesso istante il Barone Rosso mitraglia l’aereo di Antoine de Saint-Exupéry.
Altre volte Mari sceglie di farsi filologo dell’apparentemente inessenziale, di ciò che nell’economia dell’esperienza tendiamo a considerare irrilevante, e dunque si fa carico della lanugine, del truciolato, della scoria, di tutta quella materia di risulta che compone per il 99% la sostanza del mondo. Attraverso uno strumento linguistico talmente intenso da far trascorrere la lettura dalla pura gioia lessicale e sintattica a un senso di commozione senza fine, ci confrontiamo allora con la ricostruzione della vicenda di Crapa Pelada, una nenia popolare che si fa racconto (“Eziologia di Crapa Pelada”), così come le due pagine di “Il sogno del fecaloma” sono l’occasione per comporre una tassonomia delle feci, un altro modo per dichiarare l’unicità  e l’indipendenza di ogni parola. E ancora, giocando con Vasari, Mari mette in scena il pittore Piero di Cosimo che osservando su un muro dell’Ospedal della Reparata i segni innumerevoli lasciati dalle espettorazioni degli ammalati arriva a scorgere in quel ricamo liquido la struttura della «preziosa reticella che lega i capegli di quella sua vaghissima dama».
A dominare pervasivamente i racconti di Fantasmagonia è la tonalità  malinconica: non una possibilità  bensì una necessità  implacabile, tanto che leggendo il dialogo simil-leopardiano sullo struggimento (“Ballata triste di una tromba”) ci rendiamo conto che la malinconia è un diritto inalienabile, ed è una forma dello sguardo.
Michele Mari – uno tra i vertici della narrativa italiana contemporanea – è un esploratore dell’alone: prima lo inventa, parte da un germe e lo fa propagare, poi lo esplora ricavandone un racconto. L’alone è un presentimento, un mostro a forma di lacuna, un’aureola di immaginazioni (nel racconto eponimo che chiude il libro l’autore articola un breve prontuario per diventare un fantasma).
Mari sa che la letteratura – questa fantasmagoria generata dalla lanterna magica del linguaggio – è il presentimento che abbiamo inventato per continuare a sentire la mancanza.


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