Il dramma sociale della disuguaglianza

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La paga oraria ha avuto u n i n c r e m e n t o dell’1,4 per cento su base annua, mentre i prezzi sono saliti del 3,3. Così segnando uno spread micidiale di quasi due punti percentuali (1,9 per l’esattezza) che non si registrava da diciassette anni a questa parte.

Fra le cause di questo differenziale l’Istat mette in primo piano i ritardi coi quali da tempo si arriva al rinnovo dei contratti collettivi di lavoro: mediamente ormai più di due anni dalla scadenza stabilita.

Non dice, viceversa, perché la corsa dei prezzi sta riprendendo fiato nonostante il rallentamento dei consumi. Ma forse non è poi così difficile spiegare l’andamento dell’inflazione. Da un lato, l’Italia è da mesi nuovamente esposta sul suo fronte più vulnerabile: quello dei rincari petroliferi che, attraverso benzina e gasolio, si trasmettono a tutto il sistema. Dall’altro lato, il paese continua a dover fare i suoi conti (in perdita) con quella frattura economico-sociale di fondo che separa le categorie deboli e indifese per lo più del lavoro dipendente da quelle del lavoro autonomo in grado di tutelare il proprio potere d’acquisto con acconci aumenti delle proprie fatture.

Si ha così l’ennesima certificazione che in Italia la diseguaglianza economica e reddituale fra cittadini è in costante crescita con l’ulteriore effetto di aver bloccato quell’ascensore sociale che dagli anni del dopoguerra aveva – in certe fasi anche brillantemente – funzionato integrando nella vita della comunità  le classi più diseredate.

Con la crisi esplosa nel 2008 è cominciata in proposito una lenta ma progressiva marcia indietro: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, mentre arretra senza freni quella classe media che dovrebbe essere il luogo di amalgama e di pacificazione dei conflitti sociali.

Occorre fare molta attenzione a questa perversa distribuzione del reddito perché è su questo terreno che si giocano le carte decisive nella partita per il rilancio della crescita economica.

Si sta, infatti, realizzando quel classico modello di ingorgo malthusiano che in genere precede le fasi di depressione. Quando le ricchezze si concentrano in poche mani e la gran parte della società  viene sospinta su livelli di penuria, si inaridisce quella linfa vitale di sostegno alle attività  economiche che è la domanda per consumi. E ciò perché chi ha troppi soldi per quanto spenda tende inesorabilmente a impiegare la parte maggiore del suo denaro soprattutto in speculazioni finanziarie che poco o nulla hanno a che vedere con il rilancio degli investimenti produttivi di ricchezze reali oltre che di posti di lavoro. Come ammoniva, appunto, il bistrattato reverendo inglese quasi duecento anni prima di quel che è accaduto e sta ancora accadendo oggi sotto i nostri occhi.

Nel tornante attuale la questione salariale acquista più che mai, quindi, una connotazione che non ha senso ridurre soltanto a un problema di pur evidente giustizia sociale. Se non si mettono più soldi nelle tasche di coloro che aspettano soltanto di poterli spendere per avere un livello di vita meno indecente, non c’è speranza di riavviare quel circuito consumi-investimenti- occupazione cheè la chiave di volta per rimettere in moto l’economia a vantaggio dell’intera collettività .

Il successo della “fase due” del governo Monti – quella della crescita – passa inevitabilmente sulla forzatura di questo varco difficile ma non impossibile. E l’arma decisiva non può essere che quella di un Fisco stavolta forte coi forti e debole coi deboli (quelli veri)


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