La moneta unica ora può sperare

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Questa volta, però, c’è stata una differenza: molti più di loro sono parsi dar credito alle sue parole. Questo ci porta immediatamente ad altre due domande: ammettendo che la zona euro si salvi, qual è la strategia per la crescita? La salvezza dell’euro dove porterebbe esattamente la politica europea nel suo complesso? Per quanto riguarda l’euro prendo atto di un cospicuo cambiamento d’umore. Sei mesi fa le autorità  politiche e i responsabili delle grandi aziende non erano affatto convinti che l’Europa in genere e la Germania in particolare avrebbero fatto tutto ciò che era necessario. Un crescendo progressivo di passetti pragmatici e graduali – in perfetto stile Merkel – ha trasformato gli equilibri di questa percezione. Mi riferisco alla decisione di accelerare l’introduzione del Meccanismo di stabilità  finanziaria anticipandolo a questa estate, collocandolo a ruota subito dopo l’esistente Fesf, il cosiddetto fondo salva stati. Mi riferisco al ruolo molto attivo rivestito dal Fmi. Mi riferisco ai due “Mario”. Di recente ho sentito uno stimato banchiere descrivere l’iniziativa di Mario Draghi di far concedere generosi prestiti triennali dalla Banca centrale europea alle banche europee una “forma europea di AQ”, l’alleggerimento quantitativo. Anche il professorale programma predisposto da Mario Monti per l’Italia ha riscosso plausi. Non si tratta di un “grande bazooka” in stile americano o cinese, ma la versione europea di un big bazooka è pur sempre un mix ben assortito di bazooka di piccole e medie dimensioni. 
Giacché la realtà  dei mercati ha a che vedere con le sensazioni, e gli esseri umani che di fatto costituiscono “i mercati” sono molto ben rappresentati qui a Davos, possiamo dire che questa sensazione è anche un elemento della realtà . L’umore potrà  cambiare ancora qualora l’apparente impasse sul debito greco non sarà  risolta. Ma sempre più spesso si sente liquidare la Grecia come un caso particolare. Nell’eventualità  di un default della Grecia, la zona euro dovrebbe darsi rapidamente da fare per dimostrare che non permetterà  che al Portogallo accada altrettanto. Qualora ciò andasse in porto, si potrebbe rivelare un punto di svolta molto positivo. 
Ipotizziamo quindi che nel corso dei prossimi sei mesi la zona euro si salvi. A quel punto nascono due problemi. Uno: da dove arriverà  la crescita? La ricetta tedesca dell’austerità  non risponde fino in fondo a questa domanda. Come George Soros ha messo in guardia ieri nel suo discorso qui a Davos, qualora l’Europa non avesse una strategia per la crescita correrebbe il rischio di precipitare in una “spirale debitoria inflazionistica”. Se le economie si contraggono e il gettito fiscale diminuisce, il debito accumulato in rapporto al Pil di fatto aumenterebbe. All’inizio di questa settimana, il Fmi ha reso nota la sua previsione ritoccata, prevedendo una contrazione dell’economia della zona euro pari allo 0,5 per cento nel 2012 e di conseguenza alcuni paesi si troverebbero in situazione peggiore di altri. E la Gran Bretagna sarebbe trascinata in basso con l’eurozona. 
Quanto detto ci porta alla politica. Se i mercati hanno a che vedere con le sensazioni e le emozioni, così pure è per le democrazie. Se i primi riguardano quelle dei pochi, le seconde hanno maggiormente a che vedere con quelle dei molti. E le percezioni in Europa sono molto brutte. Tra le nazioni covano pesanti rancori – greci contro tedeschi e tedeschi contro greci; europei del nord contro europei del sud; britannici contro tutti, in pratica, e quasi tutti contro i britannici. C’è una crisi generale di fiducia nel progetto europeo e prevale un colossale scetticismo nei confronti della classe politica. 
Se assisteremo al salvataggio dell’euro, assisteremo al trionfo della paura, non a quello della speranza. Altri grandi momenti epocali del progetto europeo furono stimolati e alimentati dalla speranza. Qui, invece, è la paura ad aver spinto tedeschi e altri a fare il minimo necessario: la paura che i costi del fallimento possano essere più salati ancora della poco appetibile alternativa del “bailout”, il salvataggio in extremis dei paesi inguaiati. 
Se la zona euro non ritornerà  a crescere, o lo farà  soltanto in pochi paesi in migliori condizioni, risentimenti e rancori si moltiplicheranno. Sempre più persone in Europa si chiederanno e chiederanno: “Ma allora è a questo che serve veramente l’Europa?”. Ci sono ottime risposte che possiamo formulare per questa domanda. Hanno a che vedere con il nostro potere di negoziare nel mondo del XXI secolo fatto di colossi emergenti non occidentali come Cina e India; con le sfide globali come il riscaldamento del clima; con la primavera araba, l’evento più gravido di speranze di questo decennio; con la difesa delle acquisizioni dell’ultimo mezzo secolo, compreso quel certo mix tutto europeo fatto di relativo benessere, qualità  della vita, giustizia sociale e sicurezza. 
Sarebbe sciocco dare a intendere che l’euro sia stato effettivamente la via migliore e più lineare per perseguire questi obiettivi così importanti. Se l’euro non fosse esistito, non sarebbe necessario introdurlo ancora per qualche tempo. Però esiste, pur con tutti i difetti di fabbricazione diventati ormai lampanti. Dobbiamo iniziare da qui. Tornare indietro, adesso, sarebbe peggio che procedere oltre. Gli europei devono correggere i difetti di fabbricazione andando avanti, lavorando nell’ambito dei necessari vincoli delle democrazie nazionali e conglobando una strategia per la crescita. Più di ogni altra cosa, dobbiamo riconoscere che salvare l’euro non è un’operazione-surrogato di un progetto politico più ampio, del quale un tempo si presumeva dovesse essere sia il nucleo sia il fattore catalizzante. La politica della paura può aver salvato l’euro. Per trovare una risposta europea alla primavera araba adesso ci serve la politica della speranza. 
*(Traduzione di Anna Bissanti)


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