Baciare il rospo o ingoiare il rospo?
Impressionante già nel titolo, I sette pilastri della saggezza, l’articolo di Asor Rosa comparso sul manifesto del 19 gennaio, lo è ancor di più per ampiezza e precisione d’analisi sulla fase attuale della crisi italiana. Difficile non essere d’accordo su molte argomentazioni e difficile non concordare sul presupposto di fondo dell’articolo, ovvero che la forza del governo Monti risiede, oltre che nel vuoto di opposizione, che consente l’incasso di un consenso così ampio quale non si era mai dato rispetto a un governo nella storia dell’Italia Unita, anche nell’incapacità di un pensiero radicale che sia «altrettanto globale e omnicomprensivo, di una saggezza persino più scaltrita e raffinata e al tempo stesso più corposa e vicina al mondo degli individui umani a loro volta pensanti».
Il problema messo in campo da Asor Rosa può essere riletto, allora, a mio avviso, come l’emergere di due esigenze, due aspetti dell’azione politica e quindi di due tempi e due “necessità ” diverse e non sempre coordinate e coordinabili. Da un lato abbiamo la necessità di creare un quadro di possibile fuoriuscita da un tempo della politica “sospesa”, un tempo in cui i partiti di sinistra tacciono e non intervengono su quello che si presenta come un diretto comando economico sulla società italiana. È il problema di far ripartire a sinistra un’opposizione e di rovesciare la risoluzione pretesa “oggettiva” della crisi fatta da un incremento di privatizzazioni del settore dei beni comuni, da una gestione autoritaria ed emergenziale dei conflitti sociali e del lavoro, da un ridimensionamento delle conquiste democratiche del tardo Novecento che stentano a trovare cittadinanza nel XXI secolo. Ora, il carattere inedito dell’ampiezza del consenso fornito ad un governo di tecnici rende questo problema di non facile soluzione poiché tutti i movimenti d’opposizione al governo Monti non trovano nessuna forma di rappresentanza dentro il Parlamento e certe volte nessuna forma di rappresentazione nei media.
Dunque il primo aspetto della difficoltà dentro la crisi è di natura politica, ha dei tempi di necessità rapidi e legati anche alla contingenza delle lotte dei vari settori della società italiana che sono investiti dalla ristrutturazione in senso finanziario-autoritario che domina in questa fase. La necessità è di trovare degli strumenti di rappresentazione e di gestione del conflitto capaci di mantenerlo dentro un consenso allargato e condiviso da strati sempre più ampi della società italiana e capaci però di non soffocare, per volontà di rappresentazione immediata, la specificità dei vari settori in lotta.
L’altro problema che sembra sottostare all’articolo di Asor Rosa è di antropologia politica. Ossia, come e dove trovare dei nuovi strumenti per rappresentare il dissenso, e ancor di più, attraverso quali parole e concetti analizzare il presente e prefigurare il futuro. Quando infatti, nella chiusa del suo articolo, Asor Rosa lascia intravedere un periodo lungo e ampio, «ci vorranno decenni» per veder cambiare delle cose e soprattutto per poter archiviare i vecchi strumenti analitici ed essere in grado di affrontare così «quello che ci fronteggia e sovrasta», non si può che essere d’accordo ed essere presi, contemporaneamente, dall’angoscia di un compito troppo lungo e ampio per poter trovare qualcuno che lo porti avanti. Qui vi è un aspetto marginale rispetto alla materialità della crisi ma antropologicamente fortissimo che dovrebbe essere preso in considerazione: chi, quale movimento, quale gruppo sociale s’incammina in un percorso di cambiamento sapendo che difficilmente vedrà prodursi nei tempi limitati della vita umana media dei reali e profondi cambiamenti? E ancora: siamo proprio sicuri che, una volta trovate queste nuove parole, questa nuova strumentazione, ci sia ancora qualche soggetto in grado di portarle avanti e di sperimentarne funzionamenti e limiti? È un dato ineludibile, visto il carattere non solo italiano ma mondiale della crisi e la profondità strutturale e non congiunturale della crisi stessa, che occorre dire e dirci che aspetti, tempi e necessità di questo rivolgimento di antropologia politica sono necessariamente lunghi, disperanti e senza esiti garantiti. Messa così la questione, e mi pare che in parte sia ineluttabilmente così, il rischio è di una scissione, già in atto, tra una prassi senza teoria e di una teoria senza prassi, quando non, come esito estremo di un abbandono di ogni tentativo di farle coesistere a favore di un insano movimentismo, volta a volta portato a inseguire ciò che si muove senza riuscire a capire se si muove verso il futuro o si muove prima del rigor mortis.
Eppure vi è, forse, in questa scissione un residuo del vecchio e un pensare le cose secondo una modalità che già nel Novecento era stata superata da alcuni aspetti del sapere. Voglio dire che alcuni aspetti del sapere umanistico e del sapere scientifico più legati alla ricerca teorica hanno mostrato che vi è una capacità del pensiero, della prassi sperimentale e anche artistica di avanzare contemporaneamente sul piano dei nuovi paradigmi e della verifica sperimentale delle ipotesi. Ad esempio, nel campo artistico e anche in quello della critica si è provato a teorizzare la fine del soggetto e allo stesso tempo a mettere in opera delle forme adeguate (dico adeguate e non di verifica) a quella prospettiva e a quella teoria. Nel campo scientifico, mi sembra ad esempio, le teorie cosmologiche sono anche delle forme d’osservazione dei fenomeni celesti, determinano cioè quello che si cerca e le prove e le smentite sono altrettanto importanti per l’elaborazione del modello. Nel campo politico non possiamo immaginare che questo compito possa essere esercitato, tanto per fare un esempio limitato, dalle “metafore” politiche che hanno a che fare con la narrazione e contemporaneamente con l’elaborazione di un pensiero sintetico.
Ossia, solo per esemplificare ancora, e mi si passi l’eventuale semplificazione, una metafora politica è in parte quella dei beni comuni. Di sicuro ha una presa immediata, di comprensione sintetica nella prassi politica e nell’immaginario collettivo. Al contempo mette insieme come metafora politica due concetti che vengono da una lunga tradizione anche inter-disciplinare complessa quale, da un lato, la riflessione sul proprium, la proprietà , i suoi limiti e la sua gestione, e dall’altro una riflessione sul “comune”, il comunitario e tutto ciò che ad esso è collegato. Forse solo nella prassi concreta i problemi e magari anche le soluzioni verranno a galla. Proprio per questo ritengo che sia importante l’appuntamento del 28 gennaio a Napoli del Forum della rete dei Comuni per i beni comuni, come momento di confronto tra prospettive istituzionali e di gestione e prospettive di movimento. Un’iniziativa che potrebbe essere un momento di riflessione sui modi per tenere insieme in un nesso non contraddittorio e angoscioso il presente e i «decenni» che ci vorranno per cambiare l’antropologia politica usuale e anche l’Italia, con i suoi sette pilastri della saggezza da abbattere, e l’Europa, con la sua foresta di malsani simboli monetaristi.
* rivista Il Tetto
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