Cartoline da Bengasi

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Sabato 21 gennaio 2012 probabilmente non passerà  alla storia della Libia solo per la furtiva visita di Mario Monti. Arrivato ad incontrare l’omologo libico Al-Keib – più che un premier un tecnico protempore nominato dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt) e prestanome di interessi americani e del Qatar – per rivendicare a conclusione dell’affrettato vertice, una nuova «Tripoli declaration» nella quale l’Italia insiste sui suoi consolidati interessi: investimenti e ricostruzione (di quello che abbiamo ampiamente distrutto con i nostri bombardamenti atlantici) in cambio di petrolio a buon mercato e «contenimento dell’immigrazione» nei campi di concemntramento. In continuità , furbesca e felpata con l’esecutivo precedente. No, la giornata sarà  ricordata come quella della nuova rivolta di Bengasi. 
Perché, nello stesso giorno della visita del presidente del Consiglio italiano nella capitale libica, migliaia di persone sono scese in piazza nella città  culla della rivoluzione solo un anno fa, assediando per quattro ore la sede del Cnt. Più che una protesta è stata quasi un’azione militare, sono state lanciate quattro granate, la facciata degli uffici del Cnt è stata incendiata, hanno spaccato tutti i vetri delle finestre e danneggiato un blindato a presidio della sede che alla fine è stata occupata. Ma hanno anche cercato di aggredire il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil – la sua macchina è stata distrutta – che si è salvato solo mettendosi in fuga e grazie al pronto intervento di un gruppo di ex insorti che lo ha scortato verso un’uscita secondaria. Jalil l’ha scampata e, ufficialmente, «non ci sono vittime». I manifestanti di Bengasi accusano i rappresentanti del Cnt di essere «complici di Gheddafi» e di avere «tradito la rivoluzione», chiedendo le loro dimissioni perché incapaci di coinvolgere i veri protagonisti della cacciata violenta dell’ex raìs, e per la mancata assistenza alle vittime della rivoluzione e alle loro famiglie e per la poca trasparenza delle azioni politiche. Tra loro ex insorti, mutilati, famiglie e tanti giovani. Gli stessi che il giorno prima all’Università  Ghar Yunes di Bengasi, dove era in corso una cerimonia in onore dei «martiri della rivoluzione», hanno insultato e aggredito Abdel Hafiz Ghoga, vicepresidente del Cnt e numero tre, con Jalil e l’ex premier Jibril, della leadership insorta contro Gheddafi.
Vale la pena ricordare che Bengasi, culla dell’islamismo integralista libico (v. anche la rivolta anti-italiana provocata nel 2006 dalla t-shirt contro Maometto dell’allrora ministro Calderoni), vede in piazza da tempo anche la protesta contrapposta dei fedelissimi di Abdel Fatah Yunes, l’ex ministro degli interni di Gheddafi diventato il capo di stato maggiore degli insorti, assassinato ucciso nel luglio del 2011 a Bengasi proprio da gruppi islamisti. I familiari e centinaia di seguaci chiedono che sia fatta luce su questo omicidio eccellente, scheletro nell’armadio tra i tanti della nuova leadership libica e dei servizi segreti occidentali e del Qatar – che ha avuto un ruolo decisivo nella guerra sul terreno e dall’aria a fianco della Nato – che hanno mantenuto, a Tripoli come a Bengasi, una assidua frequentazione. Una intromissione pericolosa denunciata, a fine 2011, da Abdel Rahman Shalgham, autorevole ambasciatore all’Onu ed ex ministro degli esteri di Gheddafi che in una intervista ad un giornale algerino ha accusato: «Non vogliamo essere comandati dall’emiro del Qatar».
L’assalto violento al Cnt di Bengasi non poteva rimanere senza seguito. Domenica il contestato Hafiz Ghoha ha dato le dimissioni per l’«atmosfera di incertezza e di odio che mette in discussione tutto il Cnt». Quel che resta del Cnt ha preso le difese del presidente Jalil che ha rischiato di essere linciato quasi come Gheddafi, ricordando che «egli è la più alta autorità  politica legittima fino all’elezione dell’assemblea elettorale in vista delle elezioni in giugno di un’assemblea costituente». 
Ma, mentre Musfa Abdel Jalil, il capo del Cnt – fino a quando? – ha chiesto le dimissioni anche del sindaco di Bengasi e grida ora che «le proteste contro il governo rischiano di gettare il paese in un pozzo senza fondo», la situazione precipita. Visto che, proprio nelle ore in cui era attesa l’adozione della nuova legge elettorale, è stata presa la decisione di rinviare tutto almeno di una settimana. Abdel Razak al-Aradi, il portavoce del Cnt che ha annunciato da Tripoli la decisione ha aggiunto che alcuni articoli debbono essere rivisti e che decadrà  la quota prevista del 10% che sarebbe stato riservato alle donne. Una «quota rosa» che, visto lo schiacciante clima islamista post-primavere arabe, avrebbe potuto avere un carattere di maggiore garanzia, comunque meno ambiguo che in Occidente. Che fine farà  ora il ruolo rivendicato dalle donne in quello che dovrebbe essere un nuovo processo democratico?
Ora tutti aspettano le dimissioni di quello che resta del Cnt, vale a dire dello stesso Jalil. Ma per la terza volta in una settimana, ieri Jalil ha ammonito in una intervista alla tv Libya Al-Hurra: «Non mi dimetterò perché ciò porterebbe alla guerra civile».
Ecco dunque le nuove cartoline da Bengasi. Tra i destinatari, l’Italia. Dove ieri, dopo avere comunicato la sua decisione proprio a Jalil, si è dimesso a Roma l’ambasciatore libico Hafed Gaddur – gia fedelissmo di Gheddafi passato poi agli insorti – «per motivi personali».


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