«Europa socialista e burocratica Difendo la mia America diversa»
COLUMBIA (South Carolina) — Prima la festa della vittoria in una sala che vibra di un rock assordante, riempita fino all’inverosimile soprattutto da giovani. Un «happening» strano, senza precedenti, per un candidato conservatore di vecchia scuola normalmente circondato da veterani e da anziani. Poi il fiume umano nei corridoi dell’Hilton, il panico delle «bodyguard», i fan più scatenati che cercano di sfiorare il loro idolo, come per un rito salvifico.
Infine la relativa tranquillità di una sala-banchetti: un ricevimento per ringraziare i politici locali e i «grandi elettori» che lo hanno sostenuto. Ancora centinaia di mani da stringere, Callista che abbraccia tutte le signore, le foto ricordo. Newt si presta docilmente a questa liturgia della vittoria. I più fortunati riescono a farsi ritrarre in mezzo ai due coniugi che stanno cercando, col loro voto, di catapultare alla Casa Bianca.
Il vincitore adesso è qui.
Complimenti, Mr Gingrich. Però l’Europa non è quella cosa pessima che ha descritto lei poco fa.
«Ma è vero che la vostra Europa si è data un modello sociale che fa trionfare la burocrazia», replica impassibile. Faccione e capelli da bambino invecchiato, gli occhi scuri, gelidi — un contrasto che ricorda quello che era stampato sul volto di Giovanni Spadolini — Newt Gingrich passa senza sofferenza e senza entusiasmo tra la massa dei supporter. E’ come se pensasse ad altro, in volo sulle loro teste. Non dà segni di fastidio quando viene spintonato, cerca solo di proteggere la moglie tenendola per mano. E non si stupisce né si irrita per la domanda di un cronista che non dovrebbe essere lì.
Non ripete l’invettiva pronunciata con voce tonante qualche minuto prima davanti al suo popolo del «deep South»: «Europa socialista, assistenziale, secolare».
Ora non grida ma sussurra: «Purtroppo è così. Lo dico con dolore. Quello che avete in Europa è un sistema sclerotizzato. Non dobbiamo permettere a Obama di ridurci nello stesso modo».
Ci sarebbe ancora una domanda sull’Italia, ma gli ospiti lo trascinano altrove e un assistente fa capire che non è il caso di insistere.
Un attacco all’Europa, quello che torna di continuo nei discorsi di Romney, Santorum, Paul e, ora, anche di Gingrich, che non è fine a sé stesso: serve ad accusare il presidente democratico di voler mutuare dal Vecchio continente un modello fallito. Me lo avevano spiegato chiaramente, negli «spogliatoi» del dibattito televisivo di giovedì sera a Charleston, l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, ora passato con Romney («Non vogliamo attaccare l’Europa, solo chiarire che quello è un modello che non va bene per noi) e lo stratega della campagna del candidato mormone, Stuart Stevens: «Non ce l’abbiamo con l’Italia né con nessun altro. Ma abbiamo bisogno di riaffermare che l’America di Mitt sarà radicalmente diversa: massima libertà per i soggetti economici e Stato leggero, non l’interventismo pubblico all’europea di Barack».
E se questo è il ritornello ripetuto in tutte le piazze da Romney, Gingrich non poteva che scavalcarlo. Attaccando direttamente il presidente per aver mutuato la sua filosofia politica da quella dell’attivista radicale Saul Alinsky («ma adesso che c’entra Solgenitsin?», si chiedeva ieri sera un pubblico disorientato dalla citazione di un filosofo sconosciuto ai più). Sfidando l’uomo della Casa Bianca a confrontarsi con lui in sette dibattiti preelettorali-fiume («e se vuole può anche usare il “teleprompter” come suggeritore»). E inserendo nel «modello europeo» attribuito a Obama anche la sclerosi burocratica, il socialismo (che in America è usato come sinonimo di comunismo) e — addirittura — il secolarismo dell’Europa.
Per capire quest’ultimo riferimento bisognerebbe aver assistito alla preghiera patriottico-elettorale pronunciata con gli occhi chiusi da un veterano decorato sul palco dell’ultimo comizio di Gingrich, la sera prima delle primarie, nell’hangar della portaerei Yorktown: «Signore, aiutaci a cogliere l’occasione che ci offre il voto di domani per riportare il nostro Paese sulla strada giusta e restaurare il patrimonio ideale dell’America. Preghiamo nel nome di Gesù di risorgere come popolo e come nazione così da poter dire che siamo di nuovo un Paese unito sotto Dio. Amen».
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