Lo «Tsunami» Gingrich riapre la corsa repubblicana
L’onda anomala che ieri ha scosso l’America conservatrice, però, difficilmente spingerà Gingrich fino alla nomination repubblicana. Certo, lui ha la tempra del grande combattente. E’ risorto dopo essere stato dato per morto due volte: all’inizio dell’estate scorsa, quando il suo team elettorale l’abbandonò in blocco e poi ancora a dicembre quando i suoi consensi, dopo un’impennata, precipitarono di nuovo per effetto delle notizie imbarazzanti emerse (con lo zampino degli amici di Romney) sulla sua vita privata e i suoi rapporti d’affari.
Dopo aver deluso in Iowa e New Hampshire, Gingrich si è riscattato in South Carolina grazie a una straordinaria mobilitazione anti-Romney degli evangelici e dei Tea Party.
Ma più che creare il varco per un nuovo battistrada, la svolta di ieri rischia di compromettere il percorso di Romney. Newt già parla da sfidante di Obama, ma gli uomini della sua campagna si preparano a una lunga «guerra di attrito» per sottrarre delegati all’avversario, Stato dopo Stato. Anche se sta cercando di sfruttare l’improvvisa popolarità per raccogliere donazioni (l’altra sera ha lanciato l’operazione «money bomb»), l’ex Speaker della Camera non ha, ad oggi, le risorse per avviare una vera campagna negli Stati più grandi e dispendiosi.
Il candidato mormone ha, invece, molti soldi e un’organizzazione capillare ovunque in America. Di certo recupererà : forse già in Florida, dove si vota tra 8 giorni. E la sua struttura è fortissima in Michigan e Nevada, dove si vota a febbraio. Ma l’emergere di Gingrich rischia comunque di dissanguarlo sia nei numeri che nella credibilità .
Romney può non farcela a raggiungere i 1.144 delegati necessari per ottenere la nomination (dopo i primi tre Stati è appena a quota 33 contro i 25 di Gingrich). Ma il vero rischio, per lui, è che l’«establishment» del partito che fin qui l’ha sostenuto considerandolo il più «eleggibile» dei candidati in campo, prenda alla fine atto che anche lui è un aspirante troppo pallido per poterla spuntare su Obama.
Che, infatti, non può che fregarsi le mani davanti alle lotte intestine che indeboliscono i repubblicani e allo stallo creato da tre primarie con tre vincitori diversi.
Da domani lo slogan di Gingrich per scardinare Romney sarà , più o meno: l’America ha bisogno di un reaganiano audace, non di un timidone del Massachusetts. Se questo messaggio farà breccia nell’elettorato, Romney sarà spacciato. Ma non per questo il partito si rassegnerà a farsi guidare da un personaggio di valore, ma anche megalomane, capriccioso e troppo radicale come Gingrich. Sarebbe la resa a quella «politica della fatwa», gli anatemi dei radicali, che anche un giornale liberale come l’Economist considera mortale per la grande tradizione conservatrice americana.
Anche se improbabile, una «convention» senza un chiaro vincitore potrebbe tirare fuori dal cilindro un «outsider» da investire per acclamazione, in mancanza di meglio. Oggi come oggi l’ipotesi non convince e i nomi che circolano ancora meno: il governatore del New Jersey Chris Christie si è già tirato indietro e appoggia Romney. Quello dell’Indiana, Mitch Daniels, si è chiamato fuori fin da maggio. Jeb, il «fratello intelligente» di George, piace, ma il terzo Bush alla Casa Bianca sembra veramente troppo. Le «teste d’uovo» del partito continuano, però, a fare ipotesi e il fatto che sia stato scelto proprio Daniels per tenere, domani sera, il controdiscorso repubblicano dopo lo Stato dell’Unione di Obama, alimenterà di certo altre voci.
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