Alla scoperta della pazza vita dei piccoli editori

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Pubblicato da una piccola casa editrice di Piombino, Effequ, di Fernando Quatraro, protagonista a sua volta del racconto. Non lavorerò gratis, dice infatti Federico di Vita appena contattato dal Quatraro. Ma quello, inopinatamente, gli offre 250 euro al mese. Quanto basta per fare di lui un eroe, un faro nella notte degli stagisti editoriali, accalappiati a zero lire in cambio dell’ambito status. Pazzi gli editori, e ancora più pazzi i piccoli editori. Fondare una piccola casa editrice è come varare un naufragio, spiega di Vita. Ma allora perché? «Ho aperto una casa editrice perché non voglio che mia figlia di sette anni debba un giorno lavorare in un call center» cito a caso dal monologo del giovane editore, che di Vita scrive assemblando le risposte raccolte durante la fiera della media e piccola editoria di Roma, centro nevralgico di tutta la vicenda. È lì che si reca in missione Vero Almont, per conto del suo editore, Juan Topuzzi, della casa editrice Big Babol di Cologno Monzese, un «sinistro fenomeno di presunto fermento culturale, con matrici anarcoidi e dagli esiti potenzialmente imprevedibili». Almont è accompagnato dall’amico Shlomo, che ha accettato di scrivere un reportage della fiera per una fanzine letteraria. I due si aggirano tra i 431 stand pressati nell’enorme cubo di marmo dell’Eur, per raccogliere notizie. I piccoli editori, scoprono, si dividono in quattro gruppi. Solo il 5% fa libri normali, gli altri trattano di esoterismo o sono iper-specializzati. L’ultimo gruppo è costituito da «un tizio sui trentacinque che ti spiega che lui ha fondato una casa editrice, la casa editrice ha pubblicato il suo libro, e questo parla di un giovane che cerca lavoro e intanto si innamora e poi si lasciano». Tra amenità  e situazioni grottesche, l’autore disegna un quadro desolante, che risulterebbe incredibile se non fosse suffragato da interviste a veri addetti ai lavori. Librai indipendenti, distributori, piccoli editori, spiegano con esattezza il motivo per cui un libro guadagna la vetrina di Feltrinelli mentre altri tornano in resa senza essere stati tirati fuori dagli scatoloni. Spariranno le piccole case editrici, chiuderanno le librerie indipendenti? Forse, in parte lo stanno già  facendo. Ma se dovesse accadere davvero – spiega Guido Rossi nella postfazione a Il denaro e le parole di André Schiffrin (Voland 2010), libro al quale di Vita torna continuamente nella sua riflessione – sarebbe «una vera rinuncia alla democrazia basata sull’opinione critica del cittadino». È vero. Ma perché dovrebbero essere i ragazzi e le ragazze a caricarsi tutto il peso di questa democrazia critica, continuando a lavorare gratis fino alla pensione?


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