Kodak, dopo 120 anni il mito va in bancarotta
MILANO — Quando nel 2020, o giù di lì, ci domanderemo in quale angolo del solaio sia finita quella scatola polverosa con le vecchie fotografie dei nostri figli quando erano piccoli capiremo in un baleno cosa rappresenti la bancarotta della Eastman Kodak Company: è la fine della società del «ricordo» dell’intero XX Secolo. Grandi avvenimenti e piccole e intime storie.
Era già nei fatti. La memoria digitale ha preso il sopravvento da anni nelle nostre abitudini, prima con discrezione poi a gomitate. La fotografia è ormai un oggetto intangibile trasformato in sequenze di 0 e 1. Su Internet un’immagine può fare il giro del mondo in frazioni di un secondo. Google e Facebook sono i nuovi incontrollabili e preoccupanti raccoglitori della nostra esistenza. Mentre un’applicazione per iPad, Instagram — dove le fotografie istantanee hanno preso il posto delle 140 battute di testo — secondo alcuni è il Twitter del futuro. E ci appare normale. La macchina fotografica, poi, è altro da tempo: uno smartphone o un tablet, sempre più di frequente. Ma la richiesta del Chapter 11 da parte della società americana — simile alla nostra amministrazione controllata, un tentativo per salvare il salvabile — diventa involontariamente l’istantanea di questo passaggio epocale. Addio alle pellicole e ai rullini. Alle immagini con le impronte digitali sopra.
È uno choc generazionale, come una rielaborazione collettiva del lutto: chi sopra una certa età non ripensa con malinconia in questo momento a immagini iconiche Kodak come quelle delle due guerre mondiali o più semplicemente alla vecchia carta fotografica con la storia della propria famiglia? «Vuole carta Kodak o le “altre”?» era la frase canonica. Chi aveva la possibilità sceglieva la prima, perché su carta Kodak era per sempre.
Alla fine, contrappasso sempre più diffuso, la società più innovativa nel suo campo è stata inghiottita dalla propria stessa capacità di innovazione. «Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto» era lo slogan del fondatore George Eastman. La sua intuizione del 1888 (4 anni prima della fondazione), rendere accessibile a tutti la fotocamera, alla fine si è realizzata in pieno. Chiunque oggi preme un tasto su un oggetto tascabile e fotografa. Solo che il resto, quello che voleva fare Eastman, lo fa un microprocessore e una memoria usb da pochi euro assemblati in Cina. I nemici della Kodak sono stati tanti: società come la Sony negli anni Ottanta. La legge di Moore che rappresenta la velocità con cui la tecnologia si è lanciata negli ultimi 30-40 anni in una corsa sfrenata. Ma, a ben «fotografare», il peggior nemico della Kodak, alla fine, siamo stati noi. Il cambio, addirittura genetico per i nativi digitali, di abitudini. La comodità di percorsi complessi — acquistare dei rullini, caricare la macchina fotografica, portare quei rullini da uno sviluppatore e andarli a ritirare — spremuti in un unico click. La velocità ha risucchiato in un buco nero l’emozione di quel gesto con cui ci godevamo quelle poche immagini all’uscita dei negozi dei «fotografi», praticamente estinti. Acquistare un rullino voleva dire partire per le vacanze. Portarlo a sviluppare era un rituale, la fine vera del viaggio. È la metafora della modernità : la democratizzazione di fatto della quantità più che della qualità . In teoria abbiamo tutti strumenti molto potenti e accessibili ma alla fine facciamo un sacco di foto inutili che lasciamo in disordine su computer, memorie tascabili, tablet e cellulari spesso perdendone le tracce (e questo è un problema serio che stiamo iniziando solo ora a metabolizzare)
Meglio e peggio. Rivoluzionario e disastroso allo stesso tempo. «Se non sei pronto a cannibalizzarti lo farà qualcun altro» ha commentato Mark Zupan, rettore dell’Università di Rochester, la città da dove partì Eastman. La realtà è più crudele. Il peso dell’analogico non sembra potere nulla nel 2012 contro la leggerezza del digitale. La strada è senza ritorno. Se ne va il ricordo di carta. Speriamo non la memoria.
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