Bagdad città bunker dove la democrazia vive in trincea
Non è un muro. È una muraglia. Ruvida e irta di sbarre di ferro conficcate nel cemento armato. Alta come quella di un castello medievale. Costruita di fretta. Una sagoma sinistra, anche sotto il limpido, lenificante cielo invernale della valle del Tigri. Ad innalzarla è stata la paura, che ancora stringe alla gola la metropoli dove si è appena conclusa l’era americana. Nelle strade del centro adesso si affacciano indifese, scoperte, le vetrine dei negozi, e gli edifici pubblici, per anni, quelli di intenso terrorismo, in particolare nel 2006 e 2007, nascosti dietro muri e muretti di protezione: goffe barricate di mattoni, incompiute, lasciate spesso a metà , senza preoccupazioni estetiche. Negli ultimi mesi ne sono state demolite tante. Ed è come se il cuore di Bagdad si fosse spalancato, avesse cessato di essere una trincea. A parte la naturale maestà del Tigri e le statue di personaggi delle Mille e una Notte, sparse qua e là , eleganti, sofisticate, su piazze appena disegnate, la città non esibisce meraviglie. Non c’è traccia dell’antichità gloriosa. Allora, negli anni delle barricate, assomigliava a un cantiere abbandonato. La ricomparsa dei negozi e di qualche pubblico palazzo è stato il timido segnale di un lento ritorno alla normalità . La Zona verde, dove è rintanato il potere (parlamento, governo, ambasciate), resta avvolta in una grande muraglia lunga chilometri, molto più curata, più rifinita di quelle dei sobborghi. E nessuno si sogna di abbatterla. Il bunker dei Vip è una cassaforte. Protegge l’autorità , dei valori, non soltanto semplici vite umane. Diversa è la paura che spinge la popolazione a ghettizzarsi, a mettersi al riparo, a erigere muraglie. Nei sobborghi del Sud della metropoli ti accorgi quanto sia viva forte ed estesa la diffidenza, l’ostilità , l’odio. E come questi sentimenti inquinino la vita quotidiana e la stessa democrazia, vale a dire il maggior lascito dell’America che se ne è andata dopo nove anni di presenza armata.
Fare l’inventario di quel che la super potenza ha creato, sulle rovine della guerra, è l’inevitabile, ambizioso compito di chi visita l’Iraq un mese dopo la partenza dell’ultimo marine. E l’immagine della periferia meridionale, dove vivono folte comunità sunnite, ancora raggruppate e trincerate dietro grandi muraglie, consente una prima valutazione. Alle loro spalle gli occupanti-liberatori hanno lasciato profonde divisioni etniche, ritagliate sulle comunità religiose, al punto da spingere i pessimisti a temere che una guerra civile sia sempre in agguato. Quelle muraglie rozze, spesso incompiute, di cemento armato, in cui ti imbatti seguendo il corso zigzagante del Tigri, sono i concreti simboli dell’instabilità , dell’insicurezza. A un forestiero viene sconsigliato di inoltrarsi nel quartiere di Dora, e nei sobborghi vicini, chiusi come fortezze. I sunniti di quell’area della metropoli diffidano degli estranei, e in particolare del governo a maggioranza sciita, quindi anche dell’esercito e della polizia ai suoi ordini. «Peccato che gli americani se ne siano andati, mantenevano l’ordine», mi dice una donna che incontro proprio a Dora, dove mi inoltro rendendomi conto che i rischi annunciati sono più leggenda che realtà . Immaginazione e paura vanno d’accordo. La donna è sunnita e non è escluso che nel passato abbia aiutato l’insurrezione contro gli americani ora rimpianti.
L’atteggiamento può apparire paradossale, dal momento che i sunniti partecipano (con sei ministri) al governo di cui diffidano, e contano perfino qualche generale nelle forze armate considerate ostili. La democrazia è senz’altro la più importante e meritevole realizzazione degli americani. Ma essa presenta alcune sostanziali singolarità . È imprevedibile. Il dialogo, anche tra alleati formali, può degenerare nel terrorismo. Come se la deflagrazione di una bomba fosse l’eco naturale di una polemica politica. Il carattere comunitario dei partiti enfatizza le divisioni etnico-religiose. Le quali, più che alla teologia, sono dovute a una tradizione carica di superstizioni, capace di sprigionare puntuali vampate di odio. Quelle divisioni, in cui l’affiliazione religiosa determina un conflitto etnico, fanno pensare alle frontiere, disegnate sbrigativamente nelle giungle o nei deserti, in un remoto momento della storia, e che poi nessuno osa correggere, cancellare, e che finiscono con l’essere considerate naturali e quindi difese con un alto costo di sangue, quasi fossero sacre. Tracciate da Dio.
Esiste in Iraq la libertà di opinione; tanti sono i giornali e le radio di tendenze diverse; c’è soprattutto un parlamento in cui sono rappresentati vari partiti, secondo i risultati elettorali. E nessuno vieta di crearne dei nuovi. Non pochi giornalisti sono finiti e finiscono tuttavia in prigione perché invisi al primo ministro sciita, Nuri el-Maliki, o al suo gruppo di potere. E molti deputati sunniti non mettono piede in parlamento per protestare contro i soprusi di cui sono vittime gli esponenti del loro partito o della loro comunità . Per le stesse ragioni alcuni ministri sunniti non partecipano al consiglio dei ministri presieduto da el-Maliki. Al fine di ricucire il governo si studia la possibilità di riunire una conferenza nazionale, considerata dai pessimisti l’ultima occasione per salvare quel che c’è di democratico.
Comunque, almeno per ora, la Costituzione redatta sotto la tutela americana, su cui si basa la democrazia parlamentare, non è stata rinnegata, anche se il primo ministro vorrebbe riformarla per darle un’impronta presidenziale. Un’intenzione giudicata dai sunniti come un passo verso una dittatura. La corruzione è dilagante a tutti i livelli del potere e i tribunali compiono i loro riti non tartassando troppo la procedura ma senza curarsi troppo della loro indipendenza nei confronti del primo ministro, che ha di fatto il monopolio dei servizi di sicurezza, e una mano pesante sulla giustizia.
Il principale handicap della democrazia irachena risiede nel fatto che i partiti non sono nazionali, ma sono lo specchio del mosaico etnico: venti per cento curdi, venti per cento sunniti, sessanta per cento sciiti. Ciascuna di queste comunità ha partiti che la rappresentano. Quasi tutti gli iracheni hanno votato in sostanza per il gruppo etnico-religioso cui appartengono. Non hanno contato i programmi politici, né hanno influito, se non in minima parte, le idee progressiste o conservatrici dei candidati. I partiti sono curdi, sunniti o sciiti. Questa è la loro identità . Con le muraglie in cemento armato, dietro la quale si trincerano, i sunniti della periferia di Bagdad trasferiscono le divisioni della società politica nella concreta realtà quotidiana. Non restano chiusi nella fortezza, escono, partecipano alla vita comune, ma prendono le loro precauzioni. Vogliono avere alle spalle un rifugio. La loro aspirazione è un Iraq federale, in cui i sunniti, come già i curdi, possano avere zone autonome, ad esempio nella provincia centrale di Anbar, dove l’insurrezione anti americana e stata più intensa che altrove fino al 2007. Lo sciita Nuri el-Maliki vuole l’esatto contrario, è per un potere centrale forte; e si dice pronto a guidare un governo “maggioritario”, vale a dire autoritario, nel caso i sunniti rifiutassero di partecipare a quello attuale.
Partiti gli americani, la democrazia irachena rischia di sgretolarsi. Essa è stata la principale realizzazione della spedizione militare degli Stati Uniti nel grande paese medio orientale. Non pochi intellettuali lo riconoscono. Un noto cardiochirurgo, con un lunga esperienza londinese, il dottor Akeel Salman, non esita a esprimere per questo la sua riconoscenza, aggiungendo che per altri aspetti l’occupazione americana ha invece calpestato l’indipendenza nazionale. Se la già traballante democrazia crollasse il fallimento dell’operazione militare promossa da Bush junior sarebbe completo. Avrebbe abbattuto una dittatura per crearne un’altra.
Non siamo ancora a questo, ma una digressione storica mi sembra consentita. Affidarsi alla storia per spiegare il presente è spesso un esercizio arbitrario. Lo spunto viene da una discussione tra esperti e diplomatici, svoltasi nella Zona verde. Il paragone cui si è arrivati è audace: ha accostato la Vienna del 1683, dove cominciò il riflusso dall’Europa degli ottomani sconfitti, e la Bagdad del 2011 dove è cominciato il ripiegamento della superpotenza occidentale (cristiana) dall’Oriente musulmano. In entrambi i casi le ambizioni di due grandi imperi sono state frustrate. A più di quattro secoli di distanza le due superpotenze hanno subito un’umiliazione, destinata a contare nel loro lungo, lento, inevitabile declino. Per il cronista impegnato nella modesta caccia ai dettagli, e impigliato nella fragile verità del momento, l’ambizioso e sommario ricorso alla storia è un’evasione stimolante. Che lo spinge a cercare se quel paragone, tra la battaglia del ‘600 alle porte di Vienna e la partenza occidentale senza fanfare nel primo decennio del 2000 da Bagdad, ha un fondamento. Vale a dire se l’America è stata veramente respinta dalla valle dell’Eufrate e del Tigri. Insomma, cacciata.
Oggi una potenza, e ancor più una super potenza, viene sconfitta quando non riesce a dominare un confronto asimmetrico: ossia con un avversario infinitamente più debole ma inafferrabile, grazie anche all’aiuto della popolazione, per natura diffidente verso lo straniero invasore, sia pure arrivato con buone intenzioni. Se non ce la fa a realizzare quel che si proponeva avviando l’azione militare, la super potenza deve svignarsela al più presto. Un’occupazione costa in vite umane, in denaro e in prestigio. Pesa politicamente. Tra gli obiettivi americani dichiarati c’era di creare una democrazia in Mespotamia. Onestamente il risultato non è brillante. E il rischio che lo sia sempre di meno è grande.
Dopo nove anni gli invasori del 2003 non hanno lasciato un paese che ispira fiducia. A causa della sicurezza e della corruzione, la prima precaria e la seconda rigogliosa, gli investimenti stranieri tanto invocati sono arrivati a gocce. Al di là del petrolio, di cui l’Iraq è uno dei grandi produttori, e che ha attirato come ovvio le maggiori società internazionali (compresa l’Eni), pochi imprenditori hanno osato atterrare sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate. Gli introiti del petrolio rappresentano il 93 per cento del bilancio; 72 miliardi dei quali, circa la metà , servono a pagare i funzionari, i militari e la polizia. I salari di due milioni seicentomila impiegati dello Stato, cinque milioni e mezzo se si aggiungono soldati e poliziotti, sono garantiti dalle ricchezze del sottosuolo. Questo significa che almeno i due terzi delle famiglie, più di venti milioni di iracheni (su circa trentadue) campano con gli incassi del greggio. Agricoltura e industria non rappresentano molto più del cinque, sei per cento.
Il fiume di automobili nuove, di frigoriferi, di televisori, di strumenti elettronici e di generatori (che suppliscono la mancanza dell’elettricità pubblica) proviene dal progressivo aumento della produzione del petrolio. La quale ha quasi raggiunto quella dei tempi di Saddam Hussein, prima dell’invasione americana. Oggi siamo a due milioni settecentomila barili al giorno contro i tre milioni centoquarantamila di un tempo. Un’ultima cifra: il novanta per cento dei prodotti di consumo sono importati. E i commercianti che controllano questo flusso di beni dall’estero costituiscono la classe dei nuovi ricchi. L’alta borghesia vive ancora all’estero. Non si fida a ritornare. Il consistente aumento dei salari del settore pubblico, grazie alla crescita della produzione petrolifera, è all’origine degli evidenti segni di benessere. Quasi il venti per cento della popolazione vive comunque sotto la soglia di povertà . Questo arido panorama social-contabile, ricostruito pazientemente, raccogliendo dati da funzionari affidabili, mostra una società nelle mani della classe politica al potere, che si confonde con lo Stato e che dispone del reddito petrolifero.
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