“Dalla Retorica al servilismo combattiamo i nostri difetti”

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Dopo l’agenzia di rating, anche Franco Cordero ci declassa d’uno scalino, anzi d’un soldo. Ma il riferimento è a Bertolt Brecht, non ai parametri dell’economia mondiale. E il paese squalificato non è l’Italia di oggi ma la “Rutulia” di qualche mese fa, sguaiata e ridanciana, governata da un re di danari che è anche peggio di Mackie Messer. L’opera italiana da due soldi è il racconto in sessanta quadri degli ultimi tre anni di vita italiana, un regnabat Berlusco alla maniera inconfondibile di Cordero, tra citazioni bibliche – il Leviathan di Giobbe – incursioni storiche fin dentro la corte dei Borgia, una lingua duttile e pieghevole, all’altezza di ogni variazione discorsiva (Bollati Boringhieri, pagg. 308, euro 17). Un viaggio tra opera buffa e fondali neri di una terra gaglioffa e istupidita, dove non vigono più logica, etica ed estetica ma affarismo allo stato selvatico e un cinico “ateismo clericocratico”. «Ne siamo usciti? Non mi illuderei troppo», dice il professore mentre ci introduce nel suo elegante studio-biblioteca del quartiere Monti, nel centro di Roma, pieno zeppo di cinquecentine e testi rari, sistemati sugli scaffali in doppia fila perché non c’è spazio sufficiente. Il ritorno del Caimano – fu sua l’idea del rettile, poi adottata da Nanni Moretti – è ritenuta ipotesi verosimile da questo illustre giurista piemontese, nato 83 anni fa a Cuneo, maestro nel campo della procedura penale, autore non solo di testi giuridici ma anche di saggi storici, romanzi e pamphlet, da dieci anni commentatore di Repubblica (i cui articoli costituiscono l’ossatura del nuovo libro). «Probabilmente bisogna aspettare la fine di questa legislatura per assistere nuovamente al suo populismo forsennato».
Nelle sue pagine non spira grande fiducia nel carattere degli italiani. Lei insiste su un “codice genetico” vocato all’asservimento. Un destino ineludibile?
«La definizione più attendibile è quella suggerita dal Leopardi nel suo feroce Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Diversamente da altri europei, abituati allo scambio intellettuale, i nostri connazionali vi sono rappresentati in una dimensione selvatica, tra rituali inutili e un costante esercizio della maldicenza. Ma curiosamente Leopardi tratta le cerimonie religiose, non il fattore cattolico e controriformista».
Che è invece molto presente nelle sue pagine. Quanto ha contato il suo allontanamento dalla Cattolica?
«A 32 anni fui chiamato da quella Università  per la cattedra di Procedura Penale. La chiamata non implicava servitù dogmatiche».
Lei era di fede cattolica?
«Lo ero nella misura in cui lo sono gli italiani. A Cuneo, dagli 11 ai 17 anni, avevo frequentato l’oratorio dei gesuiti, prendendo sul serio l’affare religioso. Ma dovevo riuscire piuttosto sospetto agli strateghi locali: ero uno dei pochissimi a non essere ammesso alla Congregazione Mariana».
Perché?
«Qualcosa in me suscitava l’impressione di una diversità  o, meglio, di una mancanza. Non avevo quella naturale predisposizione, tipicamente cattolica, a prendere le cose drammaticamente. E non ero sufficientemente malleabile. L’assenza di malleabilità  rende sospetti».
Fu così anche alla Cattolica?
«Probabilmente non sarebbe capitato nulla se non avessi ricevuto l’incarico di Filosofia del Diritto. Certo non potevano pretendere che insegnassi il diritto naturale secondo la visione cattolica. E lì nacque il dissidio. Il vescovo mi contestò l’uso pericoloso di fonti eterodosse. Gli risposi con Lettera a monsignore, che fu un piccolo bestseller. Il mio sospetto era che si trattasse di triviale contesa accademica mascherata sotto finzioni teologali».
Cosa glielo fece credere?
«Dopo sarei stato chiamato dall’Università  di Torino e poi dalla Sapienza di Roma. La facoltà  romana di Giurisprudenza non era un covo di bolscevichi, per farmi fuori sarebbe bastato solo un cenno da parte del monsignore. Insomma, non ci furono veti».
Che cosa le è rimasto di quell’esperienza?
«Incise profondamente sulla mia vita. Non avrei scritto quasi nulla di quello che poi ho scritto, oltre la produzione giuridica. E sarei una persona diversa da quella che, senza eccessive simpatie, ravviso in me. Diciamo che ho sperimentato alcuni degli aspetti consueti dell’ambiente italiano e cattolico».
Ancora il “carattere genetico”. Ma questa letteratura anti-italiana, di cui lei è un insigne esponente, non rischia di essere un genere molto efficace sul piano retorico ma non altrettanto sul piano interpretativo?
«L’uso oratorio del linguaggio è un altro dei tratti tipici dell’italianità , che favorisce il fiorire di ogni tipo di retorica, tra cui anche quella anti-italiana».
Ma italiano è anche lei, professor Cordero. E italiano è anche l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Il nostro codice genetico non è solo cinismo e servitù.
«Ma la guerra mossa a certi caratteri dell’anima italiana non implica una condanna in blocco dei nati nella penisola. Se c’è una pianta d’uomo rigogliosa – ricorro alla formula di Alfieri – ricca di varietà  individuali, questa è proprio l’italiano. Però l’ambiente sociale risulta dominato da certe costanti che non ne favoriscono lo sviluppo migliore». 
Una costante è quella di equivocare serietà  con mestizia. Di Monti si lamenta la tristezza, capo d’imputazione che pesò in passato su altri protagonisti.
«Il pubblico vuole cantori teatranti. Cavour risultava molto antipatico ai suoi coetanei perché estraneo alla retorica facile. Anche Giovanni Giolitti fu considerato figura odiosa per la sua scarsa facondia. Il discorso laconico, che è poi l’enunciazione di fatti, da noi è considerato atteggiamento respingente, grave difetto, segno inequivocabile di inferiorità . L’italiano è naturalmente retore, parolaio, arcade. Il Berlusconi barzellettiere e ipnotizzatore di folle è al grado zero di questa scala retorica».
Più illiberale di Mussolini, paranoico come Hitler, peggio di Mackie Messer. Le sue definizioni dell’ex premier non sono sospettabili di un eccesso di cautela. 
«La mia prosa è dettata da una fredda analisi dei fatti. Quello di cui mi occupavo era un regime allo stato germinale, non compiuto. Gli italiani hanno corso un pericolo gravissimo, senza rendersene conto. Anche questo va ricondotto al nostro codice genetico: crediamo sempre di cavarcela».
È per questo che lei – giurista insigne, accademico riverito, autore di un Manuale di procedura penale arrivato alla diciottesima edizione – s’è occupato con sistematicità  per dieci anni del Caimano? 
«Civis sum. Se uno non mette becco sulle cose che riguardano l’interesse collettivo, si tratta di un’omissione ignava e cinica. Allora dobbiamo celebrare i finti equidistanti, artefici del pensiero a pendolo, una critica di qua e una di là , pur di non esporsi troppo».
Nel suo libro li definisce “predicatori governativi”. 
«Hanno responsabilità  gravi. La principale è di aver accreditato Berlusconi come un politico “nuovo” e “liberale”. Ma come era possibile definire in questo modo un monopolista cresciuto all’ombra del privilegio politico? Un esercizio tartufesco – quello di fingerlo ciò che non è – che temo possa riprendere con la ricomparsa del Leviathan». 
Se dovesse dare una definizione dell’evo appena concluso?
«Quel che colpisce è la regressione intellettuale. Ricordo la finezza critica con cui i miei conterranei al caffè discutevano di qualsiasi argomento. Il piemontese è un dialetto molto fruibile nel discorso dialetticamente complesso, avendo un lessico e una sintassi molto duttili. Quelle conversazioni erano la vetrina di un’intelligenza nativa, che prescindeva dal grado di alfabetizzazione. Il berlusconismo è la negazione di tutto questo».
E ora che l’ex premier è uscito di scena?
«Mah, non mi sento privato del combustibile. Lo ritengo piuttosto una materia clinica di straordinario interesse. E temo, purtroppo, che ve ne sia ancora».


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