La nave si muove verso l’abisso «Bisogna fare presto»
ISOLA DEL GIGLIO — Le onde la irridono, sferzandole lo scafo sventrato. E la Concordia sembra volersi vendicare della stupidità di noi umani colpendoci ancora, minacciosa com’è, davanti agli scogli del Giglio. «Questa qua, se si muove, ci risucchia con lei», mormorano i finanzieri della vedetta V625, «dobbiamo fare presto». «La nave parla, e non è un buon segno», riferiscono i sub della Marina emergendo in fretta all’ennesimo scricchiolio dell’acciaio. Così giriamo veloci attorno al mostro ch’è ancora addormentato eppure rivela questi piccoli sussulti da fine letargo, preannunciando un risveglio possibile e spaventoso.
Il pallone radio del ponte, visibile fino a poche ore prima, è inabissato; l’aletta stabilizzatrice della fiancata ha mutato posizione: il meteo dalla radio delle Fiamme Gialle dà increasing, in aumento venti e marosi, e sotto i colpi della cattiva libecciata forza quattro la nave va cambiando assetto, con spostamenti impercettibili e tremendi.
«S’è alzata di nove centimetri e, riabbassandosi, s’è mossa di tre», dicono di prima mattina all’unità di crisi qui sul molo. Sembrano misure irrilevanti finché non chiedi verso dove s’è mossa. «Verso l’abisso», ti rispondono. Lo scoglio della Gabbianara, che tiene imprigionato in tre uncini di roccia il grande scafo rovesciato, può non bastare più come lucchetto. Dal fondale di 37 metri la Concordia può slittare sul liscione, il declivio di sabbia e alghe che dopo qualche decina di metri finisce nell’abisso e che qui chiamano picco ma è in realtà una depressione di una novantina di metri, pronta a ingollare in un sol boccone ciò che resta del gioiello della Costa Crociere. Verso mezzogiorno il comandante generale dei vigili del fuoco, Alfio Pini, sbarca da Porto Santo Stefano con una diagnosi infausta: «Il rischio che la nave si possa perdere c’è, parliamoci chiaro». Pini è un cremonese trapiantato in Veneto, ha fatto lunga esperienza della tragedia dell’Abruzzo, misura le parole ma non si nasconde: «Le condizioni del mare potrebbero incidere pesantemente». E il mare peggiora, infatti, per dopodomani si prevede addirittura mareggiata. In superficie gli elicotteri vedono adesso chiazze oleose, altro pessimo segno anche se a sera si sostiene vengano dalle scialuppe di salvataggio. Sicché il ministro Clini, annunciando lo stato d’emergenza, spiega che i pericoli possono essere molto grossi per quel fiume di carburante che i serbatoi contengono e che forse stanno cominciando a spurgare. Il geologo Mario Tozzi, ex presidente del Parco Arcipelago Toscano, sostiene che ne bastano dieci tonnellate per rovinare l’ecosistema. Qui sono duemila e quattrocento, stivate a poppa come un rebus: perché a succhiarle via troppo in fretta si rischia di alleggerire la nave ed esporla ai capricci delle correnti; ma, a temporeggiare, il pericolo del disastro ambientale è «altissimo» e a farlo rientrare non basta l’azione delle barche mangia petrolio olandesi, non bastano i solventi attorno alle macchie, o l’annunciato arrivo della nave antinquinamento della Marina.
Comincia male, questa quarta giornata di crisi: con un grande spavento. Al mattino una dozzina di pompieri specializzati stanno lavorando sulla nave assieme a un gruppo di sommozzatori della Marina. Hanno individuato un altro cadavere, il sesto, attraverso gli oblò, e faticano per raggiungerlo per raggiungerlo. L’allarme si sparge in un secondo, «la nave si muove, evacuiamo!». Due sub racconteranno: «Eravamo al centro dello scafo, sentivamo colpi continui in immersione, abbiamo pensato ci fosse qualcuno e abbiamo battuto sui tubi e aspettato… dopo una ventina di secondi abbiamo capito che non c’era nessuno a fare quei rumori, che era la nave a… parlare». I sub sentono tirare la cima che li collega con la superficie, è quello per loro il segnale d’allarme. «Quando sei là sotto è come stare bendato, le cose prendono un aspetto diverso, la moquette rovesciata ti cala addosso come un mantello, le porte diventano pozzi neri, gli oggetti e i mobili sono trappole». In quel momento l’allarme si diffonde anche tra i pompieri del gruppo Saf, gli specialisti che in queste ore stanno frugando il relitto cunicolo dopo cunicolo. «Siamo schizzati via senza neanche usare le funi, sembrava un cartone animato», riesce a sorridere qualcuno di loro. Sei minuti, ci mettono, per imbragare una dozzina di uomini e portarli via dai ponti della nave che potrebbero diventare una trappola. Gioino Di Rocco pilota Drago 57 e ha addosso 2.300 ore di volo: «Quando abbiamo sentito i rumori è cominciata l’azione di salvataggio. I dodici Saf si sono messi a poppa ad aspettarci». Calano i verricelli, il gruppo è in salvo. Le operazioni sono sospese, sembra davvero finita, mentre i numeri dei dispersi — sedici, ventidue, ventinove… — si impennano in una cabala delirante che nessuno, tantomeno la Prefettura, pare in grado di arrestare.
Poche ore dopo, contrordine, si ricomincia ma con la massima prudenza: «La nave è sufficientemente stabile», dice il comandante generale Pini, pur ammettendo che nell’avverbio sta il veleno: «Certo, in quel sufficientemente c’è il nostro margine di rischio. Ma non possiamo lavorare senza rischio, lei lo capisce, no?».
Questa è una bizzarra tragedia in cui tanti uomini coraggiosi mettono in pericolo la loro pelle per rimediare alla stoltezza di pochi avventati imbecilli. Lo si capisce passando con il motoscafo dei carabinieri sopra le famose scole, il primo punto d’impatto della Concordia con la roccia gigliese, a cinquecento metri dal porto: e a cinquecento metri dalle luci che qualche casa accendeva per ricambiare il «salutino al Giglio» del comandante Schettino che è costato questa catastrofe. «Qui sotto abbiamo trovato pezzi di lamiera grandi come Fiat 128», ci raccontano i carabinieri. Il salutino era usanza comune, lo sanno tutti sull’isola: una consuetudine contro la legge ma simpaticamente italica, sembrano pensare i giornalisti venuti qui da ogni parte del mondo e ammassati nella sala stampa improvvisata a due passi dal bar Ferraro, vera situation room di questa crisi. «Una cosa così è inimmaginabile, la vedi solo nei film catastrofisti americani», sospira il comandante dei sub, Rodolfo Raiteri. Sbagliato. La nostra etica alle vongole fa realtà anche della fiction meno plausibile. Sicché gli stranieri ci guardano. Dal giapponese all’olandese, basta mettere il naso qui dentro, per scoprire una decina di possibili traduzioni della parola «vergogna».
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