Le foto dell’agonia blu

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Ci si sente annegare, come se mancasse il respiro e l’istinto di sopravvivenza gridasse di risalire all’aria. Ci eravamo illusi che le lenti delle telecamere sottomarine si limitassero sempre a frugare fra i relitti per la storia o per le inchieste. Ma queste che trasmettono dal ventre d’acqua della balena bianca, della Concordia in secca sono in diretta dal terrore ancestrale di morire annegati che noi creature di terra portiamo nelle nostre cellule. Le telecamere riprendono una nave ancor viva che racchiude una morte possibile.
Era curiosità , sia pure grande e non morbosa, quella che dopo il 1985, quando l’oceanografo ed esploratore Robert Ballard individuò finalmente il relitto del Titanic a sud di Terranova e più tardi i batiscafi della “Spedizione Titanic” cominciarono a inviarci le cartoline dall’abisso di 3.787 metri sul quale giaceva la nave. Nel silenzio di quel video, accompagnato soltanto dalla colonna sonora del brontolio dei motori del batiscafo, vedemmo affiorare lo spettro di un transatlantico, la grande prua ancora intatta, lo squarcio aperto dall’iceberg, i parapetti, le strutture.
Ma quella era una bara di acciaio riesumata da una profondità  che il piccolo faro del bastiscafo robot, senza uomini a bordo, illuminava con chiazze spettrali emerse da un passato evidentemente troppo lontano per sconvolgerci. Attorno al feretro spezzato da 59mila tonnellate, c’erano i segnali in fondo rassicuranti degli addobbi funebri, i molluschi, i coralli, le alghe già  cresciute attorno allo scafo e ai rottami sparsi sul fondo sabbioso. Il Titanic era quello che ci si aspettava. Non si sarebbero neppure trovati corpi e resti umani, quasi 100 anni dopo.
Dal Concordia l’indiscrezione coraggiosa dei sommozzatori ci manda invece immagini di vita appena vissuta, annegata poche ore fa, forse ancora boccheggiante dietro una paratia, una porta stagna. Quella della supernave da crociera non è una riesumazione, né un’indagine, ma la sequenza di un’agonia blu, come il colore del mare attorno al Giglio. Questa è una nave che muore, non un reperto storico. Le sdraio sono ancora lì pronte per accogliere i crocieristi. Il metallo della chiglia è ancora perfettamente bianco, luminoso nella vernice che il sale, l’acqua e la fauna non hanno ancora intaccato. Soltanto nella ferita mortale aperta dallo scoglio, dal roccione che ha ucciso la nave, si intravvede la brutalità  delle lamiere.
Nel filmato del Titanic sentivamo l’incubo del tempo, la voce di vite che non ci sarebbero comunque più state, oltre i pochi vecchissimi superstiti, di un mondo che non ci apparteneva più. Nelle prime foto prese dai sommozzatori ci siamo ancora tutti noi. In quelle sdraio non sarebbe annegata Lady Astor, rimproverando al valletto di “avere esagerato” nel portarle il ghiaccio che aveva ordinato per il suo whisky, ma bambini italiani, sposini coreani, coppe inglesi, turisti cinesi.
La voglia di riaffiorare, di uscire a bocca spalancata per inghiottire aria è violenta, come quando da bambini si giocava a trattenere il fiato sott’acqua per vedere chi resisteva di più, magari uscendo squassati dalla tosse e dai conati per avere esagerato. Non c’è più nulla di tecnologico, di meccanico, di elegante in quella carcassa che, come tutte le carcasse che siano di auto tamponate, di aerei caduti (penso al muso intatto del volo Pan Am su Lockerbie adagiato pigramente su un fianco) perdono immediatamente tutto il loro contenuto ingegneristico nel momento della fine. Non c’è dignità  nella morte delle macchine, soltanto la paura che si siano ribellate a noi, quando la nostra incoscienza o la nostra fede eccessiva le hanno spinte, come fu spinto il Titanic o il Concordia a fare quello per cui non erano stato create, sfidare una montagna di ghiaccio o una scogliera molto più vecchia e testarda di loro.
Aria, aria, per favore, i polmoni scoppiano, gli occhi lacrimano. Vogliamo risalire a galla, sulla terra.


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