Il Traduttore del Mondo

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C’era una volta Joy Brichetto. Era questa, dieci anni fa, la versione anglofona con cui il sito Internet del governo italiano «traduceva» il nome da nubile dell’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, rendendo le sue altezzose generalità  più simili a quelle di un eventuale cugino di Snoopy. «Traduttori automatici» fu allora la diagnosi. Non era inesatta. 
Non c’è dubbio che i computer di Palazzo Chigi siano oramai migliorati, e in nessun caso l’attuale occupante consentirebbe che di lui si ricordino i lunghi precedenti professionali e professorali alla «Mouthfuls»di Milano. Così, nel 2001, lo stesso sito «traduceva» il nome dell’università  «Bocconi», interpretandolo sfortunatamente come il sostantivo che designa le porzioni di cibo da inghiottire. Ma se l’origine della patologia era chiara, era ed è rimasto più difficile intendersi sulla prognosi. Da un lato i traduttori automatici incorrono in errori anche peggiori di questi (e ci inducono a farli nostri, e ripeterli), dall’altro lato svolgono una funzione benedetta. Forse, anzi e addirittura, ne svolgono due: fanno da stampella alle nostre manchevolezze e alla nostra fretta; con la loro beffarda indifferenza alla logica del discorso ci ricordano di tenere nel giusto conto le spesso insospettabili differenze fra le lingue e di onorare la professione (così bistrattata) di traduttori e traduttrici appartenenti al genere umano. 
Sì, perché non ci sono poi molte cose più umane del parlare lingue e distinguerne una dall’altra. Anzi, la nostra civiltà , o almeno il nostro modo di intenderla, incomincia proprio quando ci si rende conto che il fatto che qualcuno non parli né comprenda la nostra lingua non lo qualifica, di per sé, né come stupido, né come pericoloso, né come quel miscuglio delle due sgradevoli qualità  che i nostri progenitori designavano con il nome di «barbaro». 
Il mito di fondazione di Google Translate, che parla di un inganno linguistico perpetrato a scopo amoroso, è dunque adeguato. Il rischio dell’inganno, le gioie dell’amore, o almeno di quella sua forma parziale che è la comprensione reciproca, sono i due moventi fondamentali che ci spingono a sognare macchine per la traduzione automatica. La ragazza che vuole capire le parole di una canzone, il ragazzo di altra nascita che la corteggia, la madre che non conosce la lingua degli insegnanti con cui è a colloquio: sono tutti testimonial della necessità  di intendersi, anche in modo ridotto e precario. Babele ci divide, ma col dividerci ci unisce nella comune umanità . Se tutti gli uomini parlassero una lingua sola non sarebbero uomini. Sarebbero angeli: o computer. 
Che le sue incarnazioni terrene non arrivino all’altezza del sogno di una traduzione perfetta non dovrebbe essere una novità , per gli umani. Infatti il vero e unico errore incomincia quando si pensa che per tradurre un testo basta passarlo da un traduttore automatico. È così che nascono quei menù da trattoria che vanno sotto la rubrica «l’oste in translation» perché propongono ai turisti piatti come «Pens to the angry one» (= penne all’arrabbiata). Ma pensate davvero che un computer possa tradurre una frase senza averla capita? O in alternativa che possa capirla? Il problema non è l’errore: come sempre il problema è la correzione, o meglio la mancata correzione. Il bravo oste farebbe meglio a offrire un pranzo a un turista straniero in cambio di un aiuto a tradurre il menù in modo sensato. A scuola, inoltre, nel tempo lasciato libero dall’insegnamento di attività  che vengono tranquillamente demandate al computer si potrebbe insegnare a correggere (prima ancora, a subodorare) gli errori che il computer ci induce a compiere, o a omettere di correggere. In una classe di grammatica inglese, o francese o altro, si potrebbe allora dare come esercizio la correzione di una traduzione compiuta da Google Translate. Cosa che magari darebbe anche adito a utili riflessioni linguistiche e filosofiche sul fatto che una frase non è un accatastamento di parole, ma è innanzitutto una forma sintattica che dà  senso a ogni singola parola grazie ai propri nessi. Quelli li percepiamo solo noi: per ora e, certo, quando ci sono.


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