L’oltraggio finale dei soldati Usa ai Taliban uccisi

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WASHINGTON – Eccoli “the Few, the Proud, the Marines”, “i pochi, gli orgogliosi, i marines”, come vuole il loro spot per il reclutamento, che urinano sui cadaveri di tre afgani, forse tre Taliban, appena uccisi. «E una buona giornata anche a te, buddy, amico», ride uno di loro irrorando un caduto. Nello sconfinato catalogo degli orrori che ogni guerra produce senza distinzione di epoca, razza, religione, motivi, uniforme, e al quale gli strateghi da editoriale e da tavolino mai pensano al momento di far partire gli altri per il fronte, questa sequenza variamente definita come «abominevole», «ripugnante», «assolutamente intollerabile» dal ministro della Difesa Leon Panetta è invece un sottoprodotto inevitabile di quella oscenità  legalizzata che consiste nello scegliere fra uccidere o essere uccisi. «La profanazione dei cadaveri dei caduti è una violazione della Convenzione di Ginevra» ha detto il generale John Allen, comandante del teatro di guerra afgano, come se quel nobile e patetico documento, sempre citato e sempre ignorato, potesse regolare cavallerescamente le guerre mai dichiarate e asimmetriche fra bande di guerriglieri e truppe regolari, consumate nell’odio razziale e religioso reciproco.
In Afghanistan, come fino a ieri in Iraq o mezzo secolo fa nel Sud Est asiatico, è “the horror”, la sola legge che domina su campi di battaglia nei quali il nemico è un demonio da bruciare vivo con il napalm o il fosforo. Un infedele, un comunista, un tagliagole, un imperialista da impalare sulle canne acuminate di bambù, da bombardare con aerei robot senza rischio per piloti con il telecomando, da far saltare in aria anche – e soprattutto – mentre porta medicinali e soccorsi ai villaggi. I marines americani che si sono autofilmati mentre sfogavano il proprio odio, ed esorcizzavano la propria paura, sui cadaveri di tre possibili Taliban, sono l’equivalente, mentre si macchiano di quella vergogna, dei “jihadisti” che a Falluja in Iraq il 4 marzo del 2004 arsero vivi dentro un’automobile quattro civili americani, contractors ausiliari delle forze armate regolari, poi ne trascinarono sull’asfalto i resti carbonizzati prima di appenderli ai pali della luce. E la tradizione di tagliare la testa al nemico ucciso per innalzarla su una picca, o di esibirne lo scalpo, come facevano i cacciatori di indiani americani per incassare la taglia e poi gli indiani entusiasticamente copiarono, non è nata in queste scellerate e fallimentari guerre “preventive” per “cambiare regime”.
Ciò che rende specialmente demenziale il gesto oscenamente goliardico dei ragazzi americani con l’uniforme dei tiratori scelti marines – l’unità  responsabile degli oltraggi sarebbe stata già  identificata – è il disastro propagandistico che esso produce. Guerre come quelle combattute in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan non hanno obbiettivi di conquista territoriale né di occupazione coloniale. Proprio i Taliban sanno talmente bene chi stia davvero vincendo la guerra in Afghanistan dopo 10 anni da avere, attraverso il loro portavoce Zabihullah Mujahid, minimizzato lo scandalo, per non deragliare negoziati che porteranno a quello che loro vogliono: all’uscita della Nato dal Paese, che tornerà  in mano loro. Il territorio da conquistare sono “i cuori e le menti” della gente e questa clip, già  vista milioni di volte come le foto dal carcere orribile di Abu Ghraib, è una Caporetto della propaganda, una grande battaglia perduta e irrecuperabili anche se, e quando, i marines saranno radiati e condannati.
Perché sulle “dottrine” e le “teorie” arrivano sempre gli uomini a farci sopra la pipì. Arrivano i soldati che rischiano la propria vita e sono esseri umani spinti oltre i tabù e i comandamenti e le leggi che la vita civile loro impone. Soltanto chi ha vissuto in prima persona l’odio e la paura verso un nemico ombra, chi ha accompagnato l’agonia del commilitone sbudellato da un ordigno piazzato a tradimento, può capire, senza giustificare, quell’orrendo gioco da maschiacci che, come i bambini, fanno a chi la fa più lontano. Specialmente quando il veleno della incompatibile diversità  culturale ed etnica si aggiunge alla dinamica di ogni guerra, casi come questo dei marines diventano inevitabili e molto più frequenti di quanto, occasionalmente, una clip video scivoli nel mare di Internet. Dei cuori e delle menti da convertire, a quei marines con le insegne dei cecchini scelti non potrebbe importare di meno. Ogni soldato, dicono tutte le memorie dal fronte, combatte per il proprio “buddy”, per l’amico e il commilitone, non per Dio, Bush, Obama, Patria, Famiglia o Libertà . E infatti proprio “buddy” è, con terribile sarcasmo, l’espressione usata da un marine mentre urina.
Scrivono veterani e reduci ai giornali, come il New York Times ieri, che episodi come questi sono molto più diffusi di quanto il solito ritornello della “mele marce” e delle “esemplari punizioni dopo l’inchiesta” ammettano. Già  sul fronte del Pacifico, nella guerra contro i “musi gialli” giapponesi, il comandante supremo Chester Nimitz dovette ordinare ai soldati di non decapitare i morti per portarsi a casa i teschi come souvenir, mentre i “giap” si coprivano di infamie contro i prigionieri americani (protetti dalla Convenzione di Ginevra). Soltanto occasionalmente, per il rimorso di un protagonista, o per le foto che filtrano da carceri come Abu Ghraib a Bagdad, affiorano. Si scopre così che, nel 2010, un gruppo di GI, di soldati dell’Esercito si divertiva a sparare a uccidere civili afgani per sport. Ed è ben noto, già  dal caso del villaggio di My Lai in Vietnam e del tenente Calley che fece uccidere 347 persone, che la distinzione fra “civili” e “combattenti” è spesso soltanto fiction per i rapporti ufficiali. «Questi Taliban uccisi – ha scritto un altro reduce al New York Times – erano sicuramente assassini e di bambine» e dunque «si meritano soltanto disprezzo ed escrementi addosso». The Horror, appunto. L’orrore subito e inflitto a bersagli di comodo, a puri simboli disumanizzati, che siano morti come i tre Taliban o vivi come i 2.833 sacrificati nelle Torri Gemelle sull’altare della Guerra santa.


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