In aereo con Romney: salverò l’America

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South Carolina – A sorpresa, in fondo all’aereo le hostess servono birra, il proibizionismo qui a bordo è un optional. È un segno di tolleranza da parte di Mitt Romney: permissivo con gli altri ma non con se stesso. Il candidato mormone non beve mai alcolici né caffè o tè. E sua moglie Ann tiene in casa scorte alimentari sufficienti ad affrontare una carestia di tre mesi, come si usa nella loro comunità  di fedeli. Romney evita l’argomento, ma il suo ruolo religioso – da giovane fu missionario in Francia, più tardi addirittura “vescovo” di Boston, capo di un’intera diocesi – è uno degli ostacoli da superare nel prossimo test delle primarie repubblicane il 21 gennaio. In South Carolina, il primo Stato del Sud dopo i voti dell’Iowa e New Hampshire, sono forti i fondamentalisti protestanti, quegli evangelici che a lungo hanno considerato i mormoni una “setta” eretica o addirittura demoniaca. Ma oggi Romney è rilassato e sicuro di sé, dice che «la sera di martedì, all’annuncio della vittoria nel New Hampshire, in famiglia è stato come un altro Natale, abbiamo festeggiato tutti assieme, con figli e nipoti». Arriva sulla pista del piccolo aeroporto di Bedford (Massachusetts) a piedi e da solo, il Secret Service non gli ha ancora dato la scorta, per qualche tempo il favoritissimo dei repubblicani per la corsa alla Casa Bianca resta avvicinabile. È ancora limitato il numero di giornalisti che lo seguono, quasi nessuno straniero, all’imbarco su questo volo charter della Miami International Air, un Boeing 737 in partenza per Columbia, South Carolina, la nuova tappa di una tournée elettorale che sta assumendo un ritmo sempre più frenetico. La posta in gioco è alta: è la speranza di inanellare la terza vittoria consecutiva, che potrebbe “blindare” in anticipo la sua nomination. Sempre in blazer blu, sempre con la camicia bianca a quadretti larghi (deve averne cento tutte uguali), colletto sbottonato e niente cravatta, sempre la stessa pettinatura impeccabile. Dieci minuti dopo il decollo, Romney si alza dal suo posto in prima fila, e viene a parlare. La netta vittoria nel New Hampshire (39,4% dei voti e 16 punti di distacco sul secondo piazzato, Ron Paul) è già  un ricordo. Il tema caldo, prima ancora della sua religione mormone o delle sue posizioni sull’aborto (non abbastanza “anti” quando era governatore del Massachusetts, secondo la destra religiosa), sono le accuse che i suoi stessi rivali di destra muovono alla sua carriera di finanziere multi-milionario. Newt Gingrich e Rick Perry in particolare lo hanno definito un “capitalista-avvoltoio”, colpevole di avere «smembrato aziende, licenziato migliaia di lavoratori, saccheggiato i loro fondi pensione», quando Romney era alla testa del gruppo di private equity Bain Capital, dal 1984 al 1998. Quello che per lui è un titolo di merito, la prova della sua “esperienza di businessman”, un’attività  in cui sostiene di avere «contribuito a creare più di centomila posti di lavoro», per i concorrenti è un marchio d’infamia. 
Le tv della South Carolina sono già  bombardate di spot pubblicitari su questo tema. Non che il Sud sia di sinistra o sindacalizzato, anzi: la South Carolina vota tradizionalmente repubblicano. Ma proprio in questo Stato ha sede una delle aziende fatte a pezzi dalla Bain Capital. E qui il tasso di disoccupazione al 9,5% è più alto della media nazionale. Nel profondo Sud ha messo radici il movimento del Tea Party, un populismo di destra che non ama Wall Street e l’alta finanza. Gingrich, Perry, e Rick Santorum, hanno chiesto che Romney renda pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, cosa che non è tenuto a fare finché non è eletto. Lui non cede: «Per ora non ho l’intenzione di pubblicarle. Sia chiaro che nessuno in questo paese paga più di quello che è dovuto» (una frase sibillina, sembra volersi difendere in anticipo dall’accusa di godere del beneficio fiscale di molti capitalisti: l’aliquota secca del 15% sulle plusvalenze finanziarie, molto più bassa dell’imposta sui redditi). Consapevole di quel che lo attende all’atterraggio, aggiunge: «Lo so, al Sud mi preparo per una battaglia in salita, sarà  molto più difficile che nel New Hampshire dove mi conoscono da tanti anni. Nel 2008, quando ero già  candidato per la nomination, in South Carolina arrivai solo quarto».
Capitalista avvoltoio, responsabile di fallimenti e licenziamenti: come risponde a questa descrizione della sua carriera?
«Mi aspettavo attacchi del genere da sinistra, da parte di Barack Obama. Quando arriveranno da quella parte, sarò pronto a rintuzzarli: questo presidente si è improvvisato nell’attività  di venture capital con la Solyndra, l’azienda solare che ha ricevuto sussidi federali e poi ha fatto bancarotta. Obama ha fatto anche del private equity diventando azionista di General Motors, sono pronto a confrontare il mio bilancio con quello del suo capitalismo clientelare di Stato. Mi sorprende invece vedere Gingrich nella parte di teste d’accusa contro il capitalismo liberale. Alla Bain Capital abbiamo sostenuto tante aziende che complessivamente hanno creato oltre centomila posti. La stampa ha parlato di casi in cui ci si sono stati licenziamenti, per alcune migliaia. Ogni licenziamento è una tragedia, però nel settore privato ci sono aziende che crescono e hanno successo, altre che per sopravvivere devono ridimensionarsi, fare sacrifici per diventare più forti. In queste elezioni è in gioco non solo la rinascita della nostra economia, ma anche l’anima dell’America: un paese capitalista, un’economia di mercato. Obama vorrebbe trasformarci in uno Stato assistenziale all’europea”.
Lei cita sempre l’Europa come un modello negativo, Italia e Grecia in particolare.
«Se si confronta il reddito medio degli americani con la media dell’Unione europea, il nostro è superiore del 50%: la ragione è semplice, va cercata nei principi fondamentali della nostra economia. Italia e Grecia sono semplicemente due casi estremi di una crisi europea che ha generato instabilità  nel mondo intero. Seguiamo questa crisi con apprensione, perché è un segnale d’allarme, un ammonimento. Se l’America dovesse seguire le ricette di quei paesi, non c’è nessuno che potrebbe salvare noi da una bancarotta. Non ce l’ho con delle nazioni o con dei popoli, ma è evidente che alcuni governi europei hanno agito in modo irresponsabile, portando i loro bilanci pubblici sull’orlo del default. Non voglio certo alienarmi la simpatia degli alleati europei, bisogna rafforzare la cooperazione in seno al G8 e al G20, ma gli europei sono responsabili per mettere ordine in casa propria. E nei confronti di Obama la discriminante è chiara: lui ha in mente una società  di tipo assistenziale, all’europea, dove i cittadini dipendono dallo Stato, dove il settore pubblico si prende cura di ciascuno dalla culla alla tomba. La forza dell’America è sempre stata un’altra: siamo la nazione della libertà  e dell’opportunità ».
Lei rinfaccia a Obama di agitare il tema delle diseguaglianze, di parlare di redistribuzione.
«Perché così si aizza una parte della nazione contro l’altra, si istiga alla lotta di classe. Continuando a prendere di mira i milionari questo presidente incoraggia l’invidia e il risentimento contro chi ha avuto successo. Margaret Thatcher disse: il problema del socialismo, e che prima o poi finisci con l’esaurire i soldi degli altri. I padri fondatori dell’America ci hanno dato un sistema diverso, una terra di intrapresa, per questo continuiamo ad essere un polo di attrazione per tanti stranieri. Questo presidente ha accumulato un debito pubblico superiore a tutti i suoi predecessori messi assieme. Io lo taglierò, raggiungerò il pareggio di bilancio. Appena arrivato alla Casa Bianca passerò in rassegna ogni voce di spesa pubblica assoggettandola a questo test: è una spesa così importante da meritare che c’indebitiamo ancora di più con la Cina, lasciando il conto da pagare ai nostri figli e nipoti? Se non passa il test sarà  eliminata. Con me presidente l’America tornerà  ad essere la mèta prediletta degli investitori e degli innovatori».
Lei ha definito la presidenza Obama come un fallimento anche nella politica estera, perché?
«Basti un esempio: forse la maggiore minaccia attuale per la sicurezza mondiale, è un Iran in grado di costruirsi armi nucleari. Questo presidente non è riuscito a impedirlo. Quando un milione di iraniani sono scesi in piazza contro il regime lui è rimasto in silenzio. Potete immaginare che Ronald Reagan avrebbe fatto una cosa simile? No di certo. Forse non l’avrebbe fatto neppure Bill Clinton. Questo è un presidente che sente il bisogno di chiedere scusa per l’America, io non lo farò mai. Quel che è accaduto negli ultimi tre anni deve essere una deviazione, non può essere il nostro destino».


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