Se questo è ancora un romanzo

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Gli ultimi libri di narrativa italiana contemporanea che mi sia capitato nei mesi scorsi di leggere (l’ordine è mio, non è strettamente legato alla comparsa dei volumi corrispondenti) sono: Andrea Bajani, Ogni promessa (Einaudi); Valeria Parrella, Lettera di dimissioni (Einaudi); Paolo di Paolo, Dove eravate tutti (Feltrinelli); Giuseppe Culicchia, Sicilia o cara (Feltrinelli); Aris Accornero, Quando c’era la classe operaia. Storie di vita e di lotte al Cotonificio Val di Susa (il Mulino), davvero appassionante; Ermanno Cavazzoni (una mia vecchia consolidata passione), Guida agli animali fantastici (Guanda); Franco Arminio, Cartoline dai morti (nottetempo) (in seguito, stimolato dal mio colloquio con Vinicio Capossela e Sandro Veronesi, la Repubblica, sono risalito fino al più lontano nel tempo Vento forte tra Lacedonie e Candela, Laterza, uno straordinario esercizio di “paesologia” intorno ai cento piccoli centri che si stringono in Irpinia intorno al paese natale di Francesco De Sanctis, Morra); Christian Frascella, La sfuriata di Bet (Einaudi); Tullio Pericoli, Robinson Crusoe di Daniel Defoe (Adelphi) (Pericoli segue passo passo la narrazione di Defoe ma al tempo stesso se ne distacca, diventa un’altra cosa, tutta sua); e, last but… Paolo Sortino, Elisabeth (Einaudi), un libro d’impressionante bravura, su cui varrebbe la pena di tornare individualmente. Inoltre, ho riletto per la prima volta dopo la sua prima comparsa (più o meno come l’autore dice di aver fatto nella ripresentazione a questa edizione) Il piccolo naviglio di Antonio Tabucchi (Feltrinelli). E ho letto, con colpevole ritardo ma con grandissimo gusto, La marea umana di Franco Cordelli (della fine del 2010: Rizzoli).
Che senso può avere un elenco così eterogeneo e apparentemente del tutto casuale? Beh, intanto ne ha uno cautelativo. Il critico, ovvero «lettore di professione» che dir si voglia, deve oggi fronteggiare una vera e propria valanga di proposte editoriali, prevalentemente concentrate proprio nel settore della narrativa (tornerò su questa caratterizzazione). Nulla di paragonabile a quanto accadeva nel medesimo campo fin o a trenta-quarant’anni fa.
Se poi lo stesso critico, o per dovere professionale oppure per soddisfare i propri personali interessi, si volge al passato e continua a leggere Ariosto e Balzac, Boccaccio e Proust, oppure allunga lo sguardo verso le molteplici manifestazioni dell’attuale letteratura mondiale (anch’esse cresciute di significazione e di numero in maniera impressionante), la pretesa di seguire un percorso ragionato e sistematico si indebolisce ancora di più. Primo paradosso (che forse non vale soltanto in questo campo): quanto più il mercato allarga la sua universale tendenza produttiva E LA SUA ONNIVORA MOLTIPLICAZIONE di testi diversi, tanto più la risposta critica diviene eminentemente individuale, e necessariamente solitaria (questo è uno dei tanti motivi, ma forse il più decisivo, per cui la critica è considerata sempre più superflua e marginale nel quadro generale dei processi di lettura: se non si è in grado d’indicare una strada, perché si continua a concionare?).
Qualsiasi discorso critico, dunque, va perimetrato con onesta esattezza: io di questo e questo parlo, non d’altro. Si possono mettere forse insieme poi i pezzi di questi diversi discorsi: solo dopo però che ognuno di essi sia stato definito con qualche sia pure approssimativa esattezza.
Torniamo all’elenco. Non si fa fatica a capire che è fortemente eterogeneo (come ho già  accennato). Ci sono romanzi e racconti veri e propri, ma anche indagini sociologiche, divertissements filosofico-letterari, racconti disegnati invece che narrati. Che vuol dire? Vuol dire che oggi la letteratura, soprattutto nella sua forma specificamente narrativa, è dappertutto. Alla forsennata moltiplicazione della produzione libraria s’è accompagnata la diffusione a macchia d’olio della letteratura su di un’infinità  di mezzi di espressione e comunicazione: stampa, televisione, pubblicità , discipline sociali e storiche, musica e canzoni, disegno e pittura, fumetti, comics, ecc. ecc. O non si parla ormai, universalmente di “narrazione” anche a proposito di politica? Vuol dire che il racconto, – se la narrazione è racconto, e naturalmente anche viceversa, – è un modo d’espressione peculiare della società  democratica di massa (più che la scienza, nonostante le apparenze). Io non trovo perciò niente di strano né di riprovevole in questo abbattimento delle barriere tradizionali. Mi pare anzi che i narratori stricto sensu ne potrebbero trarre anche loro un vantaggio, evadendo dalle strettoie e dalle misure di un racconto intimista (nell’elenco un paio di titoli muove in questa direzione, non c’è bisogno di dire quali).
Però, al tempo stesso, bisogna tener conto di questo rischio: dove la letteratura è dappertutto, può accadere che essa, nella sua essenza più autentica, non sia in nessun luogo. Quand’è che la narrazione, – anzi, “affabulazione” pura e semplice, estesa a dismisura, e perciò straniata e inconsapevole, – diviene racconto? 
Diviene racconto quando non si limita a tentare di “riprodurre” la vita, ma cerca di coglierne il senso. Non la vita, ma il senso della vita è (è sempre stato e, secondo me, dovrebbe sempre essere) l’oggetto della grande narrazione. Trovo intollerabili i giovani scrittori che si sforzano di riprodurre il bla-bla dell’esistenza. Per sollevarsi dalla massa, – quella sì davvero eterogenea, – della produzione editoriale, bisogna cimentarsi con qualcosa che sta dietro alla vita o, meglio, è dentro alla vita, ma al tempo stesso è la parte nascosta, apparentemente invisibile della vita, che il racconto “buono” fa emergere. Nell’elenco vanno chiaramente in questa direzione Bajani e Parrella; ci va, forse con maggiore chiarezza che nei suoi libri torinesi periferici e suburbani, Culicchia; ci va, con dura, inimmaginabile chiarezza (che però non è né spietata né crudele) Sortino; ma ci va anche Pericoli, un vero, grande narratore, secondo le categorie che ho cercato di enunciare.
C’è un po’ di nostalgia per i tempi andati in queste mie note critiche post-natalizie? Beh, sì: l’anagrafe conta qualcosa. Se rileggo così piacevolmente, – direi meglio: così serenamente, – Il piccolo naviglio di Tabucchi e m’immergo con profonda soddisfazione nel gioco sapiente della Marea umana di Cordelli, è perché lì, nelle forme tra loro profondamente diverse che situazioni e caratteri diversi hanno su di loro impresso, il perenne controcanto tra vita e senso è centrale. A giustificazione e sostegno dei giovani scrittori si può dire che oggi tutto è diventato più difficile. E il contesto, che invece dovrebbe farlo, non aiuta: tra i finalisti dell’ultimo Premio Strega c’erano solo due libri degni, per struttura e invenzione d’esser denominati – e considerati – romanzi: L’energia del vuoto di Bruno Arpaia e Ternitti di Mario Desiati, e sono arrivati terzo e quarto (miracoli della possente industria editoriale: riesce quasi infallibilmente a decidere quando vincere, ma ancor più infallibilmente quando non vincere).
Questa dei giovani narratori oggi è una lotta con Proteo: più difficile di quelle con il Centauro o con la Medusa, perché Proteo cambia continuamente aspetto, sfugge alla presa, e quando l’hai preso magari c’è qualcuno che ti dice che hai fatto male a prenderlo e ricominci da capo. Ma c’è chi, nonostante tutto, ci prova e riprova, senza stancarsi e senza arretrare: allargando i confini al di là  degli steccati tradizionali; e al tempo stesso tornando a praticare, ma riprecisandole, in questo nuovo universo allargato le misure tradizionali. Questo è il gioco attuale della nostra giovane narrativa. Vale la pena di seguirlo: in certi momenti è perfino entusiasmante.


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