Maschere bianche all’ombra di Conrad
Umuzungu, tubab, oyinbo, umlungu: diversi termini per denotare, nel continente africano, una sola «entità »: l’uomo bianco. Ma quante sono le sfumature del bianco nel corso della storia, nel presente, nella vita quotidiana e sullo sfondo spesso opaco e sfuggente delle società africane? quante le maschere, quanti gli abiti indossati in terra africana dall’uomo occidentale come individuo e come rappresentante della propria civiltà ? La letteratura può aiutarci a capirlo.
Sono stati pubblicati in Italia, di recente, tre bei romanzi che corrispondono ad altrettante declinazioni di una differenza, quella tra bianchi e neri, capace di precisarsi all’interno di una dialettica che Ivan Illich, parlando d’altro (di differenze di genere), ha così espresso: «”Due” può essere concepito in due modi differenti. Quando dico uno, due può significare primariamente, emozionalmente, concettualmente, l’altro, oppure può significare una replica dello stesso».
Tra l’estrema concettualizzazione di un’alterità assoluta, al limite dell’allucinazione – quell’Africa fantasma (per dirla con Leiris) definitivamente immortalata dal conradiano Cuore di Tenebra – e l’assunzione di una umanità «illuministicamente» intesa come comune e universale denominatore di ogni popolo e cultura, nel quadro di questa polarità che sembra nonostante tutto irrinunciabile, si muove quella «salutare inquietudine» che – nelle parole di Kapuscinski – ci accompagna nell’incontro (e nello scontro) con l’altro. E nella sua più o meno arbitraria, più o meno solidale, riduzione allo «stesso».
All’estremo conradiano di questa breve rassegna troviamo un libro scritto da uno svizzero di lingua tedesca, Lukas Bà¤rfuss, già affermato drammaturgo e qui alla sua prima prova narrativa, decisamente ben riuscita. Cento giorni (Einaudi, trad. di Daniela Idra, pp.216, euro15), racconta l’esperienza africana di un trentenne svizzero alle dipendenze della Direzione della cooperazione allo sviluppo della Confederazione elvetica: pieno di buone intenzioni e di inconfessati fantasmi, David Hohl attraversa titubante i mesi precedenti la guerra civile che portò in Rwanda, nel 1994, all’uccisione di centinaia di migliaia di Tutsi, un genocidio che raggiunse il suo acme durante quei cento giorni che danno il titolo al romanzo. Il modo in cui Bà¤rfuss descrive l’atmosfera all’interno della cooperazione svizzera e come questa ha condotto le proprie operazioni durante gli anni del sinistro potere Hutu è un vero e proprio atto di accusa all’acquiescenza e all’inerzia (interessata) dell’istituzione.
Alla cecità politica dei progetti di sviluppo cui pure partecipa con il dovuto zelo, Hohl aggiunge la sua irrequietezza da neofita incapace di ammettere i confini tacitamente concordati dai suoi colleghi tra la loro esistenza di lavoratori bianchi occidentali e quella dei rwandesi «assistiti». La sua ambigua relazione erotica con una donna locale e la percezione dell’aumento di tensione dei conflitti etnici cui l’uomo attribuisce un senso oscuramente antropologico (il furore dionisiaco del mondo africano che ribolle sotto l’apparente tranquillità della vita quotidiana, pronto a erompere da un momento all’altro), non riescono a fornirgli soddisfacenti chiavi di accesso a quell’universo da cui il protagonista non saprà comunque sottrarsi, sprofondandoci dentro come il Kurtz di Conrad. Al momento di abbandonare il Rwanda insieme ai colleghi, Hohl non si farà trovare e trascorrerà , unico bianco, quei cento giorni in mezzo all’«orrore»: dove il volto atroce della barbarie, e l’abbassamento graduale del giovane europeo al suo stesso livello, saranno l’ultimo atto del suo infelice tentativo di «riconoscimento».
Al polo opposto rispetto a Bà¤rfuss, un altro notevole romanzo scritto da un bianco, questa volta africano, nello specifico zimbabwese: Uomini e bestie (e/o trad. di Claudia Valeria Letizia, pp. 236, euro 18) di Ian Holding, al secondo libro dopo un esordio folgorante (Nel mondo insensibile, Einaudi). Che il «paradigma conradiano» non faccia presa nella sensibilità di un uomo nato e cresciuto nel continente africano non stupisce più di tanto, a maggior ragione trattandosi di un giovane (classe 1978) che ha trascorso la propria vita in un paese dove i ruoli dei bianchi e dei neri si sono in qualche modo bruscamente ribaltati nel volgere di pochi anni. Stupisce tuttavia come, seguendo una pista «allegorica» aperta da altri autori (bianchi) sudafricani (Coetzee su tutti, ma anche un giovane talentuoso come Damon Galgut ne Il buon dottore), Holding abbia saputo fare il giro a trecentosessanta gradi del razzismo (bianco e nero) per spalancare le porte di un’alterità , e di una pietà , capace di sospendere le ipoteche dell’universalismo occidentale e affacciarsi verso una dimensione inedita, più sfumata e in certa misura imprevedibile.
Non conviene entrare nel dettaglio, trattandosi di una rivelazione di cui è intessuta la trama del romanzo, e che emerge gradualmente nell’intercalarsi delle due vicende di cui si compone questo libro: quella di un «individuo» schiavizzato in un indeterminato mondo post-catastrofico che potrebbe sembrare una versione della Strada di McCarthy, vista dalla parte dei «cattivi»; e il diario, del tutto realistico, di un insegnante di liceo bianco che si prepara ad abbandonare il suo paese, lo Zimbabwe, per lasciarsi alle spalle lo squilibrato revanscismo di Mugabe, la gestione impazzita dello stato, il rischio della barbarie.
Più difficile collocare all’interno di queste coordinate il romanzo di Mia Couto, Veleni di Dio, medicine del diavolo (Voland, trad. di Daniele Petruccioli, pp 150, euro 13). Uno scrittore autoctono, bianco mozambicano di lingua portoghese, evoca in questo caso l’arrivo in un villaggio africano di un giovane medico portoghese, giunto alla ricerca di un’ammaliante ragazza (nera) mozambicana conosciuta in Europa. Anch’egli in qualche modo attratto dal magnetismo dell’altrove, in fuga dalla «solitudine» e dal «vuoto» della sua esistenza europea, è «pronto a trasformarsi in altro». Ma la ragazza non compare e il mondo in cui si trova accolto si rivela presto «con troppa trama e pochi personaggi»: pieno di doppi fondi, giochi indecifrabili, fastidiosi misteri.
Lo sguardo conradiano dell’uomo bianco risucchiato nella vertigine del continente nero è qui tuttavia messo a distanza dalla rappresentazione poetica di un Mozambico impenetrabile e allo stesso tempo impalpabile, rarefatto, quasi fiabesco, dove le fantasie occidentali non riescono ad attecchire, scivolano sulla superficie. Couto diluisce nella sua lingua volatile e lirica (e in un immaginario ibrido che ricorda quello del realismo magico sudamericano) le contraddizioni africane, distillandone un tono malinconico, molto più pacificato di quello dei due autori precedenti. È come se in queste pagine ci mostrasse un paese che si lecca le ferite, senza grandi clamori e conflitti, nel suo angolo semi abbandonato del pianeta.
La voce indistinta, senza origine né identità precisa, che narra questa «favola» postcoloniale è quella di un individuo forse bianco, forse nero (o forse meticcio), spaesato e sradicato come tutti gli altri personaggi di cui parla: la polarità è momentaneamente elusa, non c’è opposizione, come non esiste un chiaro e definitivo orizzonte morale. Africani o europei, siamo tutti – sembra suggerirci Couto, da una prospettiva più «sapienziale» che politica – alla ricerca di un po’ di consistenza e di pace, sapendo che nella confusione presente anche il veleno può essere medicina e che «il segreto, in una vita a brandelli, è tener pronto ago e filo e approfittare delle occasioni.».
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