Io torturo, tu torturi, noi torturiamo
Kabul e Washington sono di nuovo ai ferri corti. Pochi giorni fa la Commissione indipendente afghana per l’attuazione della costituzione ha accusato gli Stati uniti di sottoporre a tortura alcuni dei 3000 detenuti del Parwan Detention Center, la prigione gestita dagli americani nella base area di Bagram, 40 chilometri a nord di Kabul. Secondo il capo della Commissione, Gul Rahman Qazi, numerosi detenuti si sarebbero lamentati di aver subito torture, di essere stati privati del sonno, spogliati, picchiati, oppure di essere stati incarcerati senza neanche conoscere l’accusa. Lo stesso presidente Karzai ha parlato di «molti casi di violazioni della costituzione afghana e di altre leggi sui diritti umani», e il 5 gennaio ha ordinato che entro un mese la responsabilità della prigione passi nelle mani del governo.
Per ora gli Stati uniti fanno buon viso a cattivo gioco. La portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, ha usato vaghe parole di circostanza, dichiarando che gli Usa si impegneranno per il passaggio di consegne «nel modo più responsabile possibile», mentre il portavoce dell’ambasciata statunitense di Kabul, Gavin Sundwall, ha assicurato la collaborazione del suo paese nella verifica dei fatti contestati. Il portavoce di Karzai, Mohammed Sediq Amerkhil, si è invece affrettato a sottolineare che dietro la richiesta del presidente c’è soltanto il risultato dell’inchiesta. Le questioni in ballo sono però altre.
Accusato di brogli alle ultime elezioni presidenziali, percepito come un «male necessario» dai partner occidentali, negli ultimi anni Karzai ha cercato più volte di smarcarsi dal soffocante abbraccio – finanziariamente ancora necessario, però – dei paesi Nato, in favore di relazioni più solide con i paesi asiatici. E non ha lesinato dure critiche alla strategia delle forze internazionali. Tra i suoi cavalli di battaglia, la condanna dei raid notturni – ribadita pochi giorni fa in un’intervista a Newsweek -, percepiti come gravi violazioni degli spazi domestici. L’altro grande tema di discussione è il negoziato con i movimenti anti-governativi: Karzai si è sentito bypassato dalla decisione, avallata dagli Usa, di aprire un ufficio di rappresentanza dei Taleban nel Qatar (lui preferiva la Turchia o l’Arabia saudita), e ci ha messo del tempo prima di appoggiare l’iniziativa. Ma la grande questione, di cui da mesi si parla nei circoli diplomatici come nelle popolari chaikhane (sale da tè) afghane, è l’accordo di partenariato strategico in discussione tra Kabul e Washington. Karzai sa che la partita è delicata: con la Loya Jirga (grande assemblea) convocata a dicembre, ha cercato e ottenuto l’appoggio informale di notabili e signorotti locali, pur sapendo che la popolazione non vede di buon occhio la prolungata presenza Usa sul suolo afghano (l’accordo prevede l’installazione di basi militari statunitensi e un ridotto contingente militare). Per questo, ogni tanto è tenuto a lanciare bordate nazionalistiche e anti-americane, per confondere l’opinione pubblica e alzare la posta in gioco.
Anche l’accusa sugli abusi di Bagram è fumo negli occhi: gli afghani sanno che in quasi ogni prigione del paese si pratica la tortura, e che a praticarla sono tanto i poliziotti e i soldati locali quanto quelli stranieri, i quali spesso consegnano i sospetti nelle mani dei colleghi, pur sapendo che usano pratiche poco ortodosse. Un rapporto della missione Onu in Afghanistan, reso pubblico il 10 ottobre 2011, lo dice chiaramente: in molte prigioni gestite dal National Directorate of Security, i servi segreti locali, ci sono prove di tortura sistematica sui detenuti. Per esempio nelle prigioni di Herat, Kandahar, Khost, Laghman e in quella dell’antiterrorismo di Kabul (a due passi dai quartier-generali dell’Isaf e della Cia). Alla tortura contribuiscono un po’ tutti i paesi paladini dei diritti umani: il budget del National Directorate of Security – come ricordava tempo fa l’analista Kate Clark di Afghanistan Analysts Network – dipende quasi per intero dai donatori internazionali. L’assistenza tecnica invece è garantita, tra gli altri, da Usa, Inghilterra e Germania.
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