Difendiamo i beni comuni dalle liberalizzazioni

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Un governo “tecnico”, nella cosiddetta fase due della sua azione politica, vuole accelerare tale processo, con l’obiettivo di reintrodurre privatizzazioni forzate anche nel settore all’acqua.
È bene allora ricordare che l’art. 4 d.l. n. 138/2011, convertito con la L. n. 148/2011 riproduce l’abrogato art. 23 bis del Decreto Ronchi, che trovava applicazione per tutti i servizi pubblici locali (spl), prevalendo sulle discipline di settore con esso incompatibili, salvo quanto previsto in materia di distribuzione di gas naturale e di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali, trasporto ferroviario regionale. Attraverso procedure competitive ad evidenza pubblica, da svolgersi nel rispetto della relativa normativa comunitaria, gli spl potevano essere affidati ad imprenditori o a società  in qualunque forma costituite oppure a società  a partecipazione mista pubblica e privata (mediante il ricorso alla gara cosiddetta a doppio oggetto), con l’attribuzione al socio privato di una partecipazione non inferiore al 40%. L’affidamento in house veniva ammesso come deroga al regime ordinario, a patto che fossero presenti «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato» e che si rispettasse la procedura indicata (svolgimento di un’analisi del mercato per motivare la scelta dell’in house, consultazione dell’Agcm). In ultimo, la norma abrogata prevedeva un regime transitorio per gli affidamenti già  in essere all’entrata in vigore della disciplina, fissandone la scadenza ed una data certa per la messa a gara, a seconda del tipo di affidamento e della natura dell’ente gestore. La norma trovava applicazione per tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, come del resto era stato riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 2011, la quale, proprio in forza dell’applicazione estesa a tutti i servizi, aveva ritenuto il primo quesito rispettoso del requisito di omogeneità , richiesto ai fini dell’ammissibilità  dalla giurisprudenza della Consulta.
L’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis, come indicato dalla stessa Corte Costituzionale, non determinava né la reviviscenza dell’art. 113 Tuel né tanto meno creava una lacuna normativa, giacché la disciplina comunitaria poteva infatti trovare diretta applicazione nel nostro ordinamento, anche in assenza di una intervento nazionale di adeguamento.
Tale cornice giuridica ha avuto una assai breve vigenza: l’articolo 4 è stato infatti introdotto dal legislatore solo due mesi dopo l’avvenuta abrogazione dell’art. 23 bis, ignorando di fatto la volontà  referendaria. La consultazione di giugno avrebbe reso prioritaria una discussione profonda in materia di spl, al fine di intervenire in maniera razionale e sistematica in un settore da sempre oggetto di continui ritocchi normativi. Ciò tuttavia non è avvenuto: il decreto legge n. 138/3011 è stato votato in una situazione di asserita emergenza, per rispondere al mercato.
Il risultato, per quel che concerne i servizi pubblici locali, è stato – come si è detto – la riproposizione della norma abrogata solo due mesi prima, con una scelta che ha definitivamente segnato l’incapacità  di una classe politica di saper cogliere le novità  politiche ed istituzionali generate dal processo referendario. Ancora una volta, il legislatore ha posto le basi per un processo di dismissione, segnato da uno sbilanciamento dell’assetto delle gestioni a favore del privato, contribuendo alla svalutazione degli stessi assets che saranno messi a gara, essendo indiscutibile che una contestuale immissione sul mercato di numerosi beni e servizi è idonea a determinare il crollo del loro prezzo. In questo modo, il legislatore ha anche ignorato la maggiore autonomia che il diritto comunitario assicura agli enti locali in materia di definizione delle procedure di affidamento.
Attualmente la situazione è la seguente: l’art. 4 d.l. 138/2011 disciplina la gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad eccezione del servizio idrico e dei settori già  esclusi dal Decreto Ronchi, «liberalizzando tutte le attività  economiche e limitando, negli altri casi, l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad un’analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità ». L’affidamento dei servizi avviene «in favore di imprenditori o di società  in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità , imparzialità , trasparenza, adeguata pubblicità , non discriminazione, parità  di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità » (comma 8); inoltre, per quel che concerne gli affidamenti a società  miste, al partner privato selezionato con gara a doppio oggetto dovrà  detenere «una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 12). L’affidamento in house, possibile ma solo in via derogatoria rispetto al regime ordinario, è ammesso «a favore di società  a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione cosiddetta in house», a patto che «il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento sia pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui». Infine, è definito un regime transitorio per gli affidamenti già  in essere all’entrata in vigore della nuova disciplina, determinandone la scadenza e la relativa messa a gara (comma 32, lett. a, b, c, d). Se all’esistenza del regime transitorio e del meccanismo delle gare a data certa si aggiunge da una parte il “premio” che i Comuni riceveranno una volta effettuate le dismissioni (l’art. 5 prevede infatti l’assegnazione di una somma non sottoposta ai vincoli di spesa propri del patto di stabilità ), dall’altra la sanzione del commissariamento per gli enti che invece risulteranno inadempienti alla data del 31 marzo 2012, non è certamente infondato parlare di una violazione dei principi comunitari e costituzionali dell’autonomia decisionale dell’ente locale.
Occorre reagire, e subito, a questa situazione di illegalità  diffusa, di attentato alla Costituzione e di vulnus alla democrazia partecipativa; occorre reagire agli ulteriori e attuali progetti politici dell’attuale governo “tecnico” (fase 2) che intendono estendere gli effetti di tali provvedimenti anche all’acqua. La reazione deve partire non “soltanto” dal Forum dei movimenti per l’acqua pubblica e dai ventisette milioni di cittadini che hanno votato contro le privatizzazioni “forzate”, ma anche da parte di tutte quelle amministrazioni locali che rivendicano il rispetto della Costituzione e della loro dignità  ed autonomia decisionale. Democrazia partecipativa e democrazia locale, in una dimensione nazionale, devono unirsi in una grande battaglia di civiltà , una grande battaglia per i diritti.
Una prima e importante occasione per discutere di questi temi sarà  il 28 gennaio a Napoli, giorno in cui de Magistris ha invitato, nell’ambito del I forum dei comuni per i beni comuni, le amministrazioni e i movimenti a discutere di tali temi e a produrre un documento unitario.


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