Ordini, imprese, faccendieri così gli interessi privati tengono sotto scacco le riforme

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ROMA – Una casta nella casta, l’una nascosta dentro l’altra. Come in una matrioska. Si fa presto a dire lobby. Sono partiti, pezzi interi di Parlamento, a farsi consorteria, a curare interessi, a schermare affari. Lobbisti sono gli stessi onorevoli. Anche se a invadere i corridoi di Montecitorio sono sempre più stormi di faccendieri. Li chiamano «sottobraccisti». Pronti a prendere sotto braccio il parlamentare e spiegare, ammansirlo. Hanno trasformato l’anticamera delle commissioni più delicate – dalle Attività  produttive al Bilancio – in un suk. 
È accaduto poche settimane fa, quando il governo ha dovuto stralciare dal decreto “Salva Italia” le norme sulle liberalizzazioni. Si ripeterà  tra pochi giorni. L’Antitrust ha dettato la sua ricetta per liberalizzare energia, Poste, servizi pubblici. Monti e Catricalà  torneranno alla carica. E gli emissari dei gruppi di interesse sono entrati già  in fibrillazione. Avranno una buona sponda all’interno delle Camere. Ancora una volta, il Parlamento delle corporazioni alzerà  le sue barricate. In un gioco ad incastri nell’opacità , senza trasparenza, senza regole, senza controlli. Un Far West in cui poco è cambiato da quando un faccendiere pluricondannato come Luigi Bisignani, piduista e poi protagonista dell’inchiesta sulla P4, è diventato fulcro di operazioni che hanno coinvolto governo, Parlamento, linee strategiche di aziende multinazionali come Finmeccanica o Eni.
È l’ampia zona grigia dell’italico processo decisionale abitata da lobbisti che si travestono da parlamentari, da parlamentari peones succubi dei lobbisti, da migliaia di mediatori senza specifici vincoli di legge, dagli uomini potenti delle relazioni istituzionali dei grandi gruppi industriali, delle banche e delle assicurazioni che si mischiano con quelli dei gruppi di pressione vecchio stile: Confindustria, Confcommercio, sindacati, cooperative rosse e bianche. E poi, sì, ci sono anche i condizionamenti d’Oltretevere, perché c’è stato – eccome – il pressing della Chiesa nella manovra che ha impedito che la pillola anticoncezionale (fascia C non rimborsabile dal servizio sanitario nazionale) finisse sugli scaffali della grande distribuzione. E a poco è valsa la garanzia del farmacista dietro il banco.

LE CORPORAZIONI IN AULA
Ma perché abbiamo un Parlamento prigioniero delle corporazioni? C’è una lettera (protocollo 20080004354/A. G.) del 16 aprile del 2008 firmata dall’allora presidente della Federazione degli Ordini dei farmacisti, Giacomo Leopardi (alla guida dell’ordine per ben 23 anni) che spiega – involontariamente, sia chiaro – chi sono i lobbisti con indennità  da parlamentare. La lettera è scritta subito dopo le ultime elezioni ed è inviata a tutti i presidenti degli ordini dei farmacisti. «Si fa seguito e riferimento alla circolare federale n.7123 del 10 marzo u.s. per informare che, con riferimento alle elezioni politiche del 13 e 14 aprile u. s., sono risultati eletti al nuovo Parlamento i seguenti farmacisti. Dott. Rocco Crimi (Pdl), Camera, Dott. sa Chiara Moroni (Pdl, passata poi a Futuro e Libertà , ndr), dott. Valerio Carrara (Pdl), Senato, Dott. Fabrizio Di Stefano (Pdl), Senato. Si evidenzia inoltre che è stato eletto al Senato anche il Dott. Luigi D’Ambrosio Lettieri (Pdl), presidente dell’Ordine dei farmacisti della provincia di Bari e componente del Comitato centrale della federazione». Ma non è finita: «La scrivente esprime ai farmacisti eletti vivissime congratulazioni e formula loro i migliori auguri di un buon lavoro da svolgere nel rispetto dei valori ordinistici e dei principi fondanti la nostra professione». Uno smaccato conflitto di interessi nella degenerazione del parlamentare-designato chiamato a rispondere al suo capo partito e a nessun elettore. Così, dopo il partito della Coldiretti, che nella prima Repubblica eleggeva non meno di una trentina di deputati nelle liste della Dc, quello dei farmacisti che ha deciso di giocare la sua partita politica nel centrodestra della seconda Repubblica. Così, non c’è da stupirsi se D’Ambrosio Lettieri è anche il primo firmatario della lettera dei 73 parlamentari anti liberalizzazioni, suddivisi tra Pdl, Io Sud e Terzo Polo. E che firme tra quei parlamentari: da Maurizio Gasparri a Raffaele Fitto, da Maurizio Lupi a Francesco Nitto Palma, da Gaetano Quagliariello a Maria Roccella, da Paolo Romani a Massimo Corsaro. Tutti in prima linea. In qualche caso, com’è avvenuto per le quote latte, è un intero partito a farsi lobby, sotto le insegne di Alberto da Giussano. Che poi è l’accusa che da destra muovono al Pd quando entrano in gioco le coop. Tra gli scranni siedono 133 avvocati, 53 medici, 23 commercialisti, 13 architetti, 90 giornalisti. I paladini delle toghe si chiamano Maurizio Paniz, Nino Lo Presti, Gaetano Pecorella, tra gli altri. Già  in guerra contro il progetto del governo di cancellare l’iscrizione agli ordini, gli esami di Stato e le tariffe minime. Non ci sono tassisti, nelle Camere. Ma è come se ci fossero. Tutti nella destra: Barbara Saltamartini, Vincenzo Piso, Francesco Biava, scuderia di Gianni Alemanno, il sindaco di Roma che deve la sua scalata al Campidoglio anche alle 7.500 auto bianche schierate con lui nel 2008. Per la verità  uno dei capi della categoria, quel Lorenzo Bittarelli, presidente dell’Uritaxi e della potente cooperativa romana del 3570 ha provato senza riuscirci a entrare in parlamento nelle liste del Pdl. Ma ai tassisti basta minacciare di bloccare le città  per ottenere il risultato. A Roma stanno con la destra, a Milano con la Lega. Per i loro padrini politici, irrinunciabili opinion maker ambulanti, capaci di incidere sul consenso in piena campagna elettorale. In fondo, pensano la stessa cosa dei farmacisti. 

LE “CORPORATE” A PALAZZO
Poi ci sarebbero i lobbisti “doc”, quelli delle corporate multinazionali che promuovono – quando vogliono – le campagne attraverso i social network. Lo fanno anche in Italia e la politica è costretta a rincorrere. Clamorosa fu per esempio la protesta via web sui costi delle ricariche telefoniche. Dietro pare ci fosse uno degli operatori del settore. Massima discrezione e super attivismo anche per la lobby delle autostrade. Si chiama Aiscat, rappresenta 23 concessionari che gestiscono 5.600 chilometri di rete. A inizio anno le tariffe autostradali sono già  aumentate. Municipalizzate, benzinai, commercianti, banche. Chi come Linda Lanzillotta da anni si batte per aprire uno squarcio alle liberalizzazioni, scuote la testa scettica: «Monti può farcela solo se presenta un pacchetto complessivo, altrimenti addio. Gli salteranno addosso». 

I PRIVATI DIETRO I PARTITI
Se ci fosse trasparenza sui flussi di finanziamento della politica sarebbero chiari i collegamenti tra lobby e parlamentari. Avviene negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi a democrazia matura. Da noi no, da noi si finge. Così che la relazione ai presidenti delle Camere del Collegio di controllo sulle spese elettorali della Corte dei Conti rileva che tutte le forze politiche abbiano ricevuto contributi da privati, ma non si sa sempre da chi e soprattutto per quali importi. Opacità . Non fosse altro perché il finanziamento può restare anonimo fino alla non indifferente soglia dei 50 mila euro. I vantaggi per l’imprenditore che trasferisce denaro ai «cari leader» sono invece consistenti, dato che scatta un diritto alla detrazione del 19 per cento di quanto versato. Un quadro interessante emerge scorrendo le dichiarazioni depositate alla Camera dei contributi a partiti nazionali e locali e singoli parlamentari nel 2010. La torta che le varie sigle si sono spartita ammonta a 49 milioni di euro in un solo anno. A parte delle centinaia di microversamenti, si scopre ad esempio che Giuseppe Mussari, presidente del Monte dei Paschi e dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, risulta essere il mecenate del Pd di Siena: 85 mila euro nel 2009, 100 mila nel 2010. Il Pdl ha ricevuto 50 mila euro dalla spa Metro C di Roma, 50 da Progetto 90 srl di Roma e 50 dalla Milano 90, entrambe di quel Sergio Scarpellini che è proprietario di una serie di immobili locati dalla Camera (e ora in via di smobilitazione). E poi 80 mila dalla Master immobiliare di Roma, 80 mila dalla Leva srl di Roma, 200 mila dal Consorzio Villa Troili di Roma, 50 mila dalla Mezzaroma Ingegneria srl, 75 mila dalla Italiana Costruzioni spa di Roma e via finanziando fino a quota 4 milioni 700 mila euro. Mara Carfagna spicca per trasparenza, perché la deputata pidiellina a differenza di altri, pur non essendo tenuta, rende pubblici anche i mini finanziamenti ricevuti nell’anno della sua candidatura in Campania da sette finanziatori, tra cui AirItaly, per un totale di 47 mila euro (sotto soglia). L’Udc invece nel 2010 incassa 600 mila euro. Dietro, c’è tutto il supporto della famiglia Caltagirone (suocero di Casini): 100 mila euro ciascuna la Caltagirone Francesco, Caltagirone Francesco Gaetano, Caltagirone Gaetano, Caltagirone Alessandro, la Porto Torre spa, la WXIII/E srl di Roma. Finanziamento non equivale a condizionamento. Questo è chiaro. Ma la trasparenza dei dati spesso aiuta a capire. E in qualche modo risalta l’assenza dei grandi gruppi industriali dalle dichiarazioni pubbliche.

LE LOBBY SUL GOVERNO
In principio era solo Fiat. E gli amministratori parlavano direttamente coi ministri. «Oggi se dovessi stilare una classifica, direi che in Parlamento si muovono parecchio con i loro uomini Eni e Enel, seguiti dalle aziende telefoniche e dagli altri gruppi energetici», racconta il democratico in commissione Attività  produttive Andrea Lulli. Il problema è che ad accedere a Montecitorio e Palazzo Madama non sono solo i responsabili delle relazioni esterne dei grandi gruppi. «Ci sono tre categorie di avventori», racconta Fabio Franceschetti, un passato radicale, oggi a capo della «Nomos» una delle più quotate e delle poche ufficiali società  di lobbying. «La prima categoria è quella degli uomini azienda di società  e multinazionali, poi ci siamo noi, professionisti e tecnici che agiamo per conto delle aziende, infine i battitori liberi o faccendieri». Sono tanti, tantissimi, spesso avvocati di professione, lavorano per contatto o conoscenza personale, forti di una voluminosa rubrica. Rientrano un po’ nella categoria i Bisignani, i Lavitola, i Tarantini. «Il paradosso è che in Parlamento non ti fanno entrare col tesserino da ospite se non ti dichiari rappresentante di un’azienda: dichiararsi società  di lobbying non conta niente», dice ancora Franceschetti. Il dipietrista Antonio Borghesi descrive la scena: «Fuori dalle commissioni stazionano questi emissari. Spesso sono giovani donne. Soprattutto quelle delle aziende telefoniche e delle società  autostradali. Molto suadenti, spesso insistenti. Quando ci sono le sedute notturne e quando si sta per decidere, diventa tutto un grande suk». Il grande suk degli interessi. Senza i riflettori accessi, nella penombra. Senza nessuna legge. Perché i lobbisti made in Italy preferiscono l’opacità . Ci sono otto proposte di legge presentate in Parlamento. Per nessuna è cominciata la discussione. Resteranno lettera morta, come le altre quaranta proposte degli ultimi decenni. Altro che Bruxelles, Londra o Washington. Qui di società  ufficiali che interagiscono con la politica se ne contano davvero poche. La «Reti» di Claudio Velardi, la Cattaneo Zanetto & C., la FB & Associati e la Nomos. Fabio Bistoncini, boss della Fb, sui suoi «Venti anni da sporco lobbista» ha pubblicato quest’anno un libro (Guerini e associati editore). «Il senso della mia storia da lobbista lo troverò – racconta – quando il lavoro che faccio uscirà  dal cono d’ombra che lo avvolge». Troppi «sottobraccisti» in circolazione, che «non offrono competenza, ma vendono relazioni».


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