QUATTRO DOMANDE A NAPOLITANO
La sua tradizione, comunista e migliorista, ha saputo individuare nei rapporti di lavoro e nel loro cambiamento attraverso l’azione sindacale e il conflitto, linfa vitale per la battaglia politica democratica. Dunque, quando nel discorso di fine anno oppure ieri a Napoli ne parla, riesce a entrare in medias res . Le sue parole indicano come riferimenti il Piano del lavoro di «Peppino» Di Vittorio e la svolta dell’Eur di Luciano Lama. Il primo nasceva dall’analisi di una sconfitta alla Fiat negli anni Cinquanta, dentro una prospettiva di straordinario sviluppo, con il boom economico che si profilava all’orizzonte. La seconda, a cavallo tra il ’77 e il ’78, arrivava verso la conclusione (e finalizzata alla conclusione) di uno straordinario ciclo di lotta segnato da un’inedità autonomia del movimento operaio italiano. I suoi richiami sono interessanti e utili, vanno presi sul serio. Meritano dunque di essere valutati criticamente, proprio per il rispetto dovuto alla storia e alla cultura del presidente. Il riferimento al Piano del lavoro rimanda a una scelta strategica e a un’analisi dei cambiamenti in atto tese a riportare il sindacato – la Fiom e la Cgil – dentro le fabbriche e nei posti di lavoro. I primi anni del Dopoguerra erano stati segnati dalla prevalenza del ruolo politico della Cgil: solo per fare un esempio, ricordiamo gli scioperi contro l’aggressione nordamericana alla Corea. La Fiom era stata sconfitta al rinnovo delle commissioni interne, vittima dell’epurazione dei comunisti ordinata al ragionier Vittorio Valletta dall’ambasciatrice americana Clare Luce, ma anche di una perdita di rapporto con le condizioni materiali dei lavoratori. Oggi al posto di Valletta c’è Sergio Marchionne, anch’egli impegnato nell’epurazione del dissenso dalle fabbriche Fiat, ma la Fiom ora è fortissimamente radicata nelle fabbriche e la sua azione sindacale è incentrata sulla difesa delle condizioni materiali e della dignità dei lavoratori. Più consono è invece il richiamo di Napolitano alla politica dei sacrifici cara al Lama dell’Eur. Luoghi comuni del tipo «siamo tutti sulla stessa barca», o la riduzione del conflitto da risorsa per la crescita collettiva – anche dell’economia, anche della democrazia – a problema, possono legittimare il richiamo presidenziale. Lama voleva chiudere la stagione di lotta degli anni Settanta, Napolitano («oggettivamente», si sarebbe detto ai tempi della Terza internazionale) entra nel cuore delle differenze interne alla Cgil, proprio alla vigilia di un importante direttivo nazionale: attraverso i suoi appelli alla «coesione» sociale e all’unità sindacale punta i riflettori, per chi voglia intendere, sulle anomalie. La Fiom che non accetta il ricatto «lavoro in cambio dei diritti», non firma il contratto Fiat e si batte contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro, è l’anomalia. Anche se il discorso potrebbe essere allargato all’intera Cgil che forse merita, nella visione del Colle, un richiamo a una maggiore disponibilità nei confronti degli «sforzi» di un governo che non sarà unto dal Signore, ma certo fortemente voluto e protetto dal Gotha della finanza e dal Quirinale stesso. Vorremmo rispettosamente esprimere alcune perplessità al presidente Giorgio Napolitano.
Lei chiede «coesione sociale» e vede nell’accordo tra capitale e lavoro la conditio sine qua non per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Ma come si può chiedere «coesione» a un operaio della Fiat, che guadagna 500 volte meno del suo amministratore delegato? Ai tempi di Di Vittorio da lei richiamati, il feroce Valletta guadagnava 20 volte di più dei suoi operai. Oltre che alle forze del lavoro e alla loro «etica», forse presidente dovrebbe rivolgere la sua moral suasion all’«etica» dell’impesa. 3) Lei chiede di ripartire dall’accordo confederale del 28 giugno 2011, siglato con la Confindustria oltre che da Cisl e Uil anche dalla Cgil, ma contestato dalla Fiom. Quell’accordo apre la strada delle deroghe al contratto nazionale, poi spianata dall’articolo 8 della manovra ferragostana di Tremonti. Lei sa meglio di chiunque altro il valore generale del contratto nazionale che è lo strumento della solidarietà generale, così come non le sfugge la conquista democratica rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, sempre più oggetto di attacchi strumentali. 3) Il richiamo alla «responsabilità » di chi lavora dovrebbe forse essere accompagnato da un richiamo ai diritti e alle pratiche democratiche. È o non è ingiusto che ai lavoratori sia impedito di votare accordi e contratti che riguardino la loro vita e il loro lavoro? È o non è ingiusto che non venga democraticamente certificato il consenso che i singoli sindacati raccolgono nei posti di lavoro? È o non è ingiusto che senza mandati e senza verifiche alcune organizzazioni sindacali possano decidere per tutti, persino quando rappresentano una minoranza di lavoratori? È o non è inaccettabile che un sindacato non firmatario di un accordo o di un contratto venga «espulso», cancellato, impedito di svolgere attività nelle fabbriche e negli uffici? Secondo la magistratura, che a Torino si espressa in modo chiaro, si tratta di un comportamento antisindacale. Secondo lei, e secondo il governo Monti, che per il Quirinale sarebbe meritorio del sostegno di tutti? 4) Gli accordi separati sicuramente non piacciono a Napolitano, che ha buona memoria dei citati anni Cinquanta. Ma è possibile che l’unico modo per evitarli sia l’obbligo a firmare qualsiasi accordo, magari ritenuto lesivo dei principi della Costituzione? Vorremmo capire meglio il pensiero di Giorgio Napolitano, che certo non può essere banalizzato o strumentalizzato, ma che pure ci lascia perplessi.
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