Concertazione sul lavoro già  sepolta

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Nel rapporto con le parti sociali, una differenza tra il governo Monti e quello Berlusconi è chiara. Il precedente ascoltava solo Cisl e Uil nel corso di cene segrete a Palazzo Chigi. L’attuale non ascolta nessuno. Al massimo, Confindustria e Abi (l’associazione dei banchieri), oltre alla «troika» Bce-Fmi-Ue che tanto «bene» ha sistemato la Grecia. Lunedì prossimo i tre sindacati confederali verranno ricevuti separatamente dal presidente del consiglio, in compagnia del ministro dello sviluppo Corrado Passera e di Elsa Fornero, ministro del welfare. Ma solo per rendere onore al «dialogo», non certo per rianimare il cadavere della «concertazione». Su questo Monti è stato come al solito chiarissimo. Ribadendo la determinazione ad andare a incontri bilaterali e non «collettivi» anche dopo la protesta del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che via twitter aveva eccepito «gli incontri separati stile Sacconi rendono solo tutto più complicato e più lungo». Del resto, i pari grado di Cisl e Uil – Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti – si erano affrettati a mostrarsi molto più «concreti», dichiarando che non ne facevano una «questione di forma»: basta che Monti «ascolti le nostre proposte». Anche loro sembrano però destinati a restar delusi, visto che «il metodo» montiano prevede l’illustrazione delle intenzioni del governo (non «l’articolato»), l’«ascolto» delle controdeduzioni sindacali e la «decisione autonoma» finale da parte dell’esecutivo. Stop. Nemmeno il dottor Frankenstein riuscirebbe a far marciare di nuovo la «concertazione» in questo ambiente «tecnicamente» sterile. E dire che la Camusso aveva continuato a twittare aprendo portoni e autostrade alla «riforma del mercato del lavoro» in preparazione. Che proprio ieri – sia detto per inciso – ha portato alla luce una nuova ipotesi: il «contratto graduale», con flessibilità  in ingresso e anche in uscita, magari con i lavoratori anziani messii a part time (e un accenno di assegno pensionistico anticipato). E quindi la Cgil dice sì ad «assunzioni incentivate per giovani e donne con contratto di inserimento formativo» (la «bozza Damiano», in pratica); sì al «contratto nazionale» ridotto a «regolatore universale», delegando «organizzazione del lavoro e retribuzioni in rapporto alla produttività » ai contratti aziendali. Oltre a più consuete proposte sulla necessità  di un «piano per il lavoro», «riduzione della precarietà » (un passo indietro rispetto all’«eliminazione»), «investimenti nelle filiere a più alto valore aggiunto», «produttività  industriale», ammortizzatori sociali (che il governo medita di finanziare con parte dei risparmi ottenuti dalla mazzata sulle pensioni: 20 miliardi l’anno, a regime). Temi su cui, anche nel direttivo nazionale della Cgil, la dialettica è, come dire, «vivace» fin dal contestato accordo del 28 giugno. Ma proprio su questo è arrivato l’altolà  del Quirinale a ogni velleità  di «contrattare» davvero la riforma in gestazione; l’indicazione di «sciogliere i nodi già  affrontati» in quell’accordo, poi aggravato da Berlusconi con l’art. 8 della manovra d’agosto sembra ultimativa. Come dire: mandate giù qualcosa di più amaro ancora. Un doppio schiaffo che mette la Cgil in una posizione difficile (Cisl e Uil appaiono come sempre pronti a firmare qualsiasi cosa), non riuscendo a cambiar passo rispetto alle abitudini concertative dell’ultimo ventennio. Di fronte a un governo che sembra sentirsi «in missione per conto di dio», con vincoli di mandato provenienti da un altro mondo; che sembra dare per scontato o fisiologico un incremento del malessere sociale, il ruolo dei sindacati rischia di essere ridotto a quello di un «centro servizi» tra tanti. A meno di non far valere, conflittualmente e in tempo reale, la propria forza sociale. Ma questi sono problemi del sindacato, che non interessano più di tanto l’esecutivo. Che si trova semmai ad affrontare resistenze ben più consistenti sul capitolo «liberalizzazioni». Nella riunione di ieri – lo stesso Monti, Passera e il ministro delle politiche comunitarie Enzo Moavero, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Vittorio Grilli, viceministro all’economia – sarebbe stato fatto il punto sia per quanto riguarda la necessità  di allargare la platea dei settori da «aprire alla concorrenza», sia delle fortissime pressioni contrarie delle varie lobby, coagulate soprattutto in area Pdl. Le scadenze europee incombono. Il 23 si riunisce l’Eurogruppo, il 30 il vertice Ue straordinario. Monti pensa di poter convincere della bontà  della sua azione i partner continentali – in primo luogo la Germania – presentandosi con le «misure per la crescita» già  sul trampolino di lancio. E nessuno dimentica che, nella lettera della Bce inviata in agosto, Mario Draghi e JeanClaude Trichet mettevano tra i punti determinanti – oltre a rigore di bilancio, privatizzazioni e liberalizzazioni – «l’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti». Al momento, sfogliando i suoi dossier, Monti deve trovare assai più facile sfondare su quest’ultimo fronte che non sugli altri due. Ma deve portare qualcosa di importante, in quella sede. Lo scalpo del movimento operaio e sindacale, non c’è dubbio, sarebbe un trofeo forse sufficiente a rendere il giudizio dei mercati sull’Italia un po’ meno diffidente. Sotto questo cielo non sembra nemmeno strano che – secondo l’indagine del Work Monitor Randstad – «un italiano su due è disponibile a considerare l’opzione del trasferimento all’estero» pur di migliorare la propria situazione. Insomma, un serbatoio di emigrazione pronta a salpare. Se non siamo agli anni ’30, c’è però un vago odore di inizio secolo. Ma del ‘900.


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  Le immagini della carestia che ci giungono dal Corno d’Africa devono interrogare la nostra coscienza e costringerci a riflettere sulle cause che l’hanno prodotta. Non si tratta di una “catastrofe naturale”, di un “castigo divino”, ma della responsabilità  degli uomini e delle logiche che continuano a governare le scelte dei singoli stati e della comunità  internazionale.

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