Nuovi sguardi critici sul «silenzio» di Lonzi
Come ricomporre, oggi, la biografia intellettuale di Lonzi al di là delle cesure professionali? Quali rapporti congiungono in lei critica d’arte e riflessione femminista? E ancora, con riferimento al «silenzio» lonziano: come porsi in condizione di ascolto storiografico, così che il diniego si veda restituire facoltà di parola? È convinzione comune che questo stesso silenzio, per niente immemore, costituisca atto di dissenso riguardo alla scena artistica e culturale italiana contemporanea, sia dunque sorretto da argomenti fortemente polemici. Assistiamo da tempo al ritorno di interesse per Lonzi, riconosciuta voce tra le più perspicaci del decennio Sessanta|Settanta. Emerge, tra gli storici delle più giovani generazioni e gli artisti loro coetanei, la necessità di muovere oltre le versioni ufficiali della storia dell’arte contemporanea italiana, detenute come in monopolio dalle stesse persone e ripetute con rare variazioni nei decenni. La raccolta di saggi Carla Lonzi: una duplice radicalità (a cura di Lara Conte, Vinzia Fiorino e Vanessa Martini, Ets 2011, pp. 176, euro 15) si inserisce nel dibattito attorno alla figura della critica e teorica di Rivolta femminile introducendo elementi di novità . Il rapporto tra Lonzi e Longhi, in primo luogo, ricostruito da Vanessa Martini attraverso lo spoglio di corrispondenze inedite: un rapporto la cui importanza appare maggiore via via che si acquisiscono nuove conoscenze e che risulta decisivo ben oltre il piano metodologico. Allieva del grande storico dell’arte e sua protetta tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, Lonzi entra in collisione con Longhi per più motivi, di gusto e di politica culturale. La relazione evolve in opposizione aperta e (attorno al 1970, al tempo del dibattito sulla «critica acritica») spinge Lonzi a risolversi per una damnatio memoriae che sarà carica di conseguenze. Longhi non apprezza il favore con cui l’ex allieva guarda agli orientamenti informali e espressionistico-astratti e teme, con qualche moralismo, che l’assidua collaborazione con Luciano Pistoi si risolva per la giovane critica in subalternità al mercato. Lonzi trae verosimilmente da Francesco Arcangeli incoraggiamento a una migliore comprensione dell’arte americana contemporanea, riconosciuta senza difficoltà come «la più complessa da qualche tempo». Arcangeli è tra i pochi, nell’Italia della seconda metà degli anni Cinquanta e primi Sessanta, a non nutrire pregiudizio ideologico per quanto accade a New York. Ma non è il solo critico della generazione entre-deux-guerres a rivelarsi importante per Lonzi. Incontrato a Torino attraverso Pistoi, Michel Tapié, critico e teorico dell’ informel , rivela a Lonzi una «personalità che ha vissuto l’avventura» e condivide «il rischio degli artisti,… le stesse interne ragioni». La polemica antimodernista è peraltro precoce: già nel 1962, in parte per convinzioni maturate a fianco di Tapié e Pistoi, Lonzi rifiuta programmaticità e atteggiamenti ex cathedra . Nel 1963 attacca pubblicamente Giulio Carlo Argan e in seguito appare lambire dimensioni spiritualistiche che a Paolo Fossati, attorno al 1970, evocheranno Elémire Zolla se non Cristina Campo. Le sue convinzioni profonde la tengono certo distante dal discorso storico-critico egemone: e gli orientamenti né laicistici né progressisti dell’attività di Lonzi, che sceglierà per la copertina di Autoritratto l’immagine di santa Teresa di Lisieux nel ruolo di Giovanna d’Arco in prigione, attendono di essere riconosciuti adeguatamente. Tapié, sull’importanza della cui figura si sofferma Giorgina Bertolino, sembra trasmetterle un modello di storia dell’arte deviante rispetto al paradigma accademico. Artisti e opere si raggruppano per costellazioni. Orbitano ciascuno attorno a stelle fisse assegnate loro dal fato, e non partecipano a una stessa storia, né si espongono sul piano della pedagogia o degli insegnamenti socialmente «utili». Famiglie, clan, antropologie, ontologie comunitarie, isole e arcipelaghi: queste sono le unità storico-artistiche attorno a cui Lonzi lavora, nella convinzione, per più versi beckettiana (e montaliana?), del carattere derivato, ineffettivo della parola corrente, della «cultura» in quanto dimensione pubblica, del negoziato sociale attorno ai «significati». Possiamo aggiungere un ulteriore elemento al tema «antropologico». La lettura di Modelli di cultura di Ruth Benedict, nel 1961, cade in un momento cruciale: l’incontro con l’etnografia contemporanea segna il distacco dall’orizzonte storicistico della formazione e l’avvio di un percorso segnato da rivendicazioni di discontinuità e differenze radicali. Un’ultima considerazione sull’agenda filologica: quanto rimane da fare o occorre fare, a parere di chi scrive, nell’ambito degli studi lonziani. Appare evidente che Lonzi si riferisce a circostanze concrete, per lo più connesse alla propria attività di critica d’arte, anche quando appare produrre categorie. Potremmo considerare tutta la sua produzione, non solo Taci anzi parla (1978), come un racconto a chiave: per scelta o temperamento Lonzi preferisce rendere generale l’argomento polemico, che tuttavia sussiste. Chiarita la finzionalità del genere «intervista» (è questo il tema del saggio di Laura Iamurri), è dunque opportuno interrogare i testi per attingerne nomi e circostanze storiche; e immaginare una storia dell’arte italiana contemporanea condotta infine attraverso immagini, «in presenza delle opere», non attraverso parole, «poetiche», manifesti. Stefano Chiodi accenna alla necessità di muovere oltre l’accertamento specialistico (o le perifrasi del testo lonziano) in direzione di una discussione critica. In questo stesso senso, mi pare, si muove la ricerca di Lara Conte, in apparenza meticolosamente documentaria. L’istanza lonziana della tabula rasa vale per ogni generazione: il progetto (storico e storiografico) di «liberazione» rimanda pur sempre a compiti di «dialettica» e «negazione».
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