LA RECESSIONE, I TAGLI E LA LEZIONE DI KEYNES

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Tagliare la spesa pubblica in un’economia depressa deprime ancor più l’economia. Per l’austerità  si dovrebbe attendere che sia già  ben in corso una forte ripresa. 
Purtroppo, alla fine del 2010 e all’inizio del 2011, le autorità  e i politici di buona parte del mondo occidentale hanno creduto di sapere il fatto loro, di doversi concentrare sui deficit e non sull’occupazione, quantunque le loro economie avessero a stento iniziato a riprendersi dalla depressione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria. E seguendo questo principio anti-keynesiano ancora una volta hanno dimostrato che Keynes aveva ragione. 
Dichiarando confermato il dogma economico keynesiano, vado naturalmente contro l’opinione dei più. A Washington, in particolare, il fallimento del pacchetto di stimoli messo a punto da Obama per creare un boom occupazionale in linea generale pare aver dimostrato che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Coloro tra noi che avevano fatto bene i calcoli, però, si sono resi conto fin dall’inizio che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (oltre un terzo del quale, tra l’altro, ha assunto la forma di tagli fiscali relativamente inefficaci) era di troppa esigua entità , data la gravità  della recessione, e avevano in aggiunta anticipato le ripercussioni politiche che ne sarebbero derivate. 
Per tutto ciò la vera riconferma della validità  dell’economia keynesiana non è arrivata dai poco determinati tentativi del governo federale statunitense di dare nuovo impulso all’economia – tentativi oltretutto in buona parte vanificati dai tagli a livello statale e locale –, ma è arrivata dalle nazioni europee come la Grecia e l’Irlanda costrette a imporre una draconiana austerità  fiscale come presupposto per ottenere prestiti d’emergenza. Entrambi questi paesi hanno subito recessioni economiche di considerevole entità , equiparabile alla Grande Depressione, e un calo a doppia cifra del rispettivo Pil. 
Non era previsto che le cose dovessero andare così, secondo l’ideologia prevalente nel nostro dibattito politico. Nel marzo 2011 lo staff repubblicano del Congress Joint Economic Committee ha reso noto un rapporto intitolato “Spend less, owe less, grow the economy” (spendi meno, fai meno debiti, fai crescere l’economia), che minimizzava le preoccupazioni di chi era convinto che i tagli alla spesa pubblica in periodo di recessione avrebbero soltanto aggravato quest’ultima, e sosteneva al contrario che tagliare la spesa avrebbe migliorato la fiducia dei consumatori e delle imprese e che ciò avrebbe portato inevitabilmente a una crescita più rapida, non più lenta. 
Eppure, ormai si sarebbe dovuto avere maggiore buonsenso: i presunti esempi storici di un’ “austerità  espansionistica” con i quali puntellavano le loro tesi erano già  stati completamente demoliti. Oltretutto c’era anche il caso alquanto imbarazzante di molti esponenti della destra che alla metà  del 2010 avevano dichiarato il caso irlandese una storia di grande successo un po’ troppo precocemente, documentando le virtù dei tagli alla spesa per assistere poi al forte aggravarsi della recessione irlandese. E il livello di fiducia provato dagli investitori si è completamente volatilizzato. 
È sorprendente, a questo proposito, il fatto che all’inizio di quest’anno le cose si siano ripetute tali e quali: si è sbandierato e gridato ai quattro venti che l’Irlanda aveva svoltato davvero, e dimostrato di conseguenza che l’austerità  funziona. Poi, però, le cifre hanno assestato un brutto colpo e si è rimasti ancora una volta delusi. Malgrado ciò l’insistenza a tagliare immediatamente la spesa pubblica ha continuato a prevalere nel dibattito politico, con effetti perversi sull’economia statunitense. È vero: a livello federale non ci sono state nuove drastiche misure di austerità , ma si è registrato un sacco di austerità  “passiva” quando lo stimolo economico voluto da Obama si è stemperato e i governi statali e locali a corto di liquidi hanno continuato a tagliare la spesa. 
Adesso qualcuno potrebbe sostenere che Grecia e Irlanda non avevano altra scelta se non quella di imporre l’austerità , che non avevano alternative se non dichiarare il fallimento e uscire dall’euro. Un’altra lezione che il 2011 ci ha insegnato, però, è che l’America aveva e ha un’alternativa. Washington sarà  anche ossessionata dal deficit, ma i mercati finanziari stanno se non altro lanciando un segnale molto chiaro: dovremmo prendere più soldi in prestito. 
Ancora una volta, anche in questo caso, non era previsto che le cose andassero così. Il 2011 è iniziato per noi con severi moniti a non ricalcare le orme della crisi debitoria greca, che da noi si sarebbe materializzata non appena la Federal Reserve avesse smesso di comperare bond, o quando le agenzie di rating avessero declassato la nostra tripla “A”, o non appena la “supercommissionetruffa” non fosse riuscita a trovare un accordo, o chissà  che altro ancora. Invece la Fed a giugno ha posto fine al proprio programma di acquisto dei bond; Standard & Poor’s ad agosto ha declassato il rating americano; la supercommissione a novembre è arrivata a un punto morto; ma le spese legate ai prestiti hanno semplicemente continuato a scendere. In effetti a questo punto i bond statunitensi protetti dall’inflazione rendono un interesse negativo. E gli investitori sono disposti a pagare l’America affinché conservi i loro soldi. 
La conclusione di tutto ciò è che il 2011 è stato l’anno nel quale la nostra élite politica è rimasta ossessionata dai deficit a breve termine, che non sono un problema reale, e così facendo ha invece inasprito notevolmente i veri problemi, che sono un’economia depressa e la disoccupazione di massa. 
La buona notizia, per quel che vale, è che il presidente Barack Obama finalmente si è deciso nuovamente a contrastare l’austerità  precipitosa e pare essere in procinto di vincere questa battaglia politica. Forse, in uno di questi prossimi anni, potremmo davvero finire col recepire il consiglio di Keynes, tanto valido oggi quanto lo era 75 anni fa. 
*Traduzione di Anna Bissanti
© 2011 New York Times News Service


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