COSàŒ È STATA SCOPERTA L’OBESITà€ GLOBALE
Provate a sedervi al Café du Monde, nel cuore creolo di New Orleans. Vedrete la più sensazionale sfilata di obesi del pianeta. La versione a stelle e strisce di una vera e propria epidemia che sta facendo aumentare inesorabilmente la taglia del mondo. E va sotto il nome di globesità . Lo dice Sander L. Gilman, professore di Liberal Arts and Sciences all’Università di Atlanta nella sua Strana storia dell’obesità , che il Mulino ha appena mandato in libreria. Questi over size sono i paria del villaggio globale. Prima presi per la gola dal mercato planetario del junk food, di cui sono gli insaziabili finanziatori. E poi stigmatizzati da un sistema che li addita alla pubblica condanna come onnivori compulsivi, parassiti improduttivi, soggetti senza volontà , bombe a tempo per il sistema sanitario, insostenibile sovrappeso per il welfare. Come dire umiliati e obesi. E anche puniti. Tanto è vero che guadagnano mediamente il diciotto per cento in meno dei normopeso. Lo dimostra, cifre alla mano, una recentissima ricerca svedese. Nella società dell’efficienza, della velocità e della leggerezza non c’è posto per le taglie forti. La religione del fitness comporta la scomunica della fatness. Ma in realtà la criminalizzazione della pinguedine non comincia certo oggi. Si può dire, con Gilman, che sia antica quanto l’uomo. A fare la differenza però sono i pesi e le misure che in tempi e luoghi diversi fissano la soglia della normalità . Facendo del corpo l’indicatore variabile del rapporto tra individuo e collettività . È vero insomma che ogni società disapprova la dismisura. Ma la dismisura non ha una taglia fissa. Se nell’Europa medievale il grasso è segno di ricchezza, prestigio, potere e spesso anche di bellezza, al di sopra di un certo limite cambia di segno. E diventa sintomo di avidità , di intemperanza, di gola. Un vizio capitale che porta dritto all’inferno. Ma generalmente nel mondo premoderno ad essere sotto accusa non è la grassezza in sé e per sé, quanto gli appetiti smodati di cui è la prova tangibile. Non ragioni estetiche ma etiche, non ragioni fisiologiche ma ideologiche. Perché ad essere in questione non è la salute del corpo ma la salvezza dell’anima. La grande svolta avviene con la rivoluzione industriale e con la secolarizzazione. Allora il sovrappeso smette di essere un marchio etnico, razziale, morale per diventare sempre di più un carattere individuale, un segno particolare della persona e non di un gruppo. Oggetto di studio e di cura. Nasce così l’idea che il peso esteriore abbia un contrappeso interiore che è necessario mettere a nudo. E l’obesità da peccato diventa malattia. Da allora la psicologia prende in mano la questione. Insieme alle scienze naturali e antropometriche, che danno alla normalità pesi, forme e volumi sempre più esatti. E contemporaneamente anche la lingua crea neologismi per definire in maniera sempre più dettagliata quegli stati intermedi tra grasso e magro che prima non avevano nome. Diminutivi e accrescitivi, come grassottello, rotondetto, in carne, corpulento, paffuto, ciccione, falsomagro che sono di fatto parole pesapersona, giudizi calibranti. Oggi ci sembra scontato sapere quanti chili siamo, ma fino ai primi del Novecento quasi nessuno montava sulla bilancia. Insomma l’obesità è passata dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Fino a inventare un parametro come l’I. M. C., ovvero l’indice di massa corporea. Che prende le misure alla nostra vita, oltre che al girovita. Così il peso forma diventa l’algoritmo di una normalizzazione che modella il corpo e formatta l’anima. Facendo del grasso il grande nemico, l’angelo dell’apocalisse over size. E degli obesi tanti ultracorpi. Da sorvegliare e punire.
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