Le illusioni del liberista

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Al di la dei diversi nomi ad esse assegnati, manovra «salva Italia» alla prima e «cresci Italia» alla seconda, Monti ha puntigliosamente precisato che la triade composta in primo luogo dal rigore nei bilanci e poi da crescita ed equità  continuerà  a caratterizzare anche la prossima fase dell’azione governativa (potranno cambiare i pesi nella triade). Perché non ci siano dubbi sull’ordine di priorità  e sulla concezione economica e politica del suo governo, Monti ha specificato che, ritenendo preminente perseverare nel rigore di bilancio, saranno minime le risorse pubbliche per la crescita, la quale dovrà  essere stimolata dalle misure volte ad ottenere una maggiore “equità “, intendendo con quest’ultima essenzialmente ciò che deriverà  da una maggiore concorrenzialità  dei mercati da ottenersi con le liberalizzazioni . Il che chiarisce ulteriormente quali siano, per Monti, i rapporti di valore e causali tra rigore, crescita ed equità  (intendendo quest’ultima nel senso sociale e distributivo proprio del termine): il primo è indispensabile per ottenere la seconda la quale, se ce n’è a sufficienza, potrà  consentire la terza. 
Rispondendo ad una domanda, Monti è stato esplicito: l’Europa e ancor più l’Italia non possono più permettersi le prestazioni sociali concesse nei periodi di maggiore crescita del passato (e per i futuri pensionati i tagli non sono finiti visto che la manovra già  varata prevede una commissione che dovrà  studiare il taglio dei contributi a favore delle imprese che ridurrà  ulteriormente le pensioni).
In piena sintonia con la visione liberista che ha dominato gli ultimi decenni, Monti ritiene dunque che lo stato sociale sia un lusso che non possiamo più permetterci perché appesantirebbe ulteriormente il funzionamento dei mercati e la crescita che solo da essi può derivare; proprio l’esatto contrario dell’insegnamento che deriva dall’analisi delle due grandi crisi del capitalismo, quella globale in atto e quella degli anni ’30, e della storia economica, sociale e civile dal secondo dopoguerra ad oggi.
Le origini delle due crisi sono accomunate dall’illusorietà  che il mercato possa da solo determinare una crescita economica stabile, di pieno impiego ed accettabile sul piano delle compatibilità  sociali e ambientali. Gli ultimi sessant’anni si dividono tra il primo trentennio keynesista – la cosiddetta «età  dell’oro», determinata dal maggior ruolo interattivo delle istituzioni pubbliche rispetto ai mercati, dal forte sviluppo delle prestazioni sociali e da un netto miglioramento della distribuzione del reddito e della partecipazione democratica – e il secondo trentennio neoliberista, caratterizzato dall’inversione di quelle tendenze che ha progressivamente accresciuto l’instabilità  economica e sociale fino alla crisi attuale. 
Analisi economiche, sociali e politiche oramai largamente diffuse anche in ambiti molto diversi, e comunque suffragate dall’esperienza storica, convergono nell’indicare che i rapporti affermatisi negli ultimi anni tra politiche e mercati hanno grandi responsabilità  nella crisi in corso. 
Secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz «i leader europei ammettono che l’austerità  rallenterà  la crescita (col rischio di recessione e di default dei Paesi in difficoltà ) ma non fanno nulla per rilanciarla. Sono presi da una spirale distruttiva. Più austerità , economie più deboli, disoccupazione crescente e persistenza dei deficit». 
Secondo il finanziere George Soros, artefice di speculazioni memorabili, «la difficilissima situazione economica in cui si è trovato il mondo ricco nel 2011 è dovuta in gran parte alle politiche adottate (o trascurate) dai leader mondiali. L’euro fu costruito sul presupposto che i mercati siano in grado di correggere da soli i propri eccessi, e che gli squilibri nascano dal settore pubblico. Invece alcuni degli squilibri più importanti sono nati nel settore privato». Secondo Stiglitz «è ormai chiaro che nel sistema capitalista c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Oggi più che mai il futuro dipende dalla politica».
I rapporti tra bilanci pubblici, crescita ed equità , vanno inquadrati in modo sostanzialmente diverso da quanto stanno facendo le autorità  comunitarie e il governo italiano. Proprio l’ulteriore specificità  negativa dell’economia italiana, caratterizzata dall’arretratezza del suo apparato produttivo, richiederebbe ancor più l’intervento pubblico come stimolo all’innovazione e all’offerta dei corrispondenti servizi, alla creazione di reti di sicurezza per le imprese e i lavoratori disponibili a rischiare in nuovi investimenti e attività  lavorative, specialmente per la riconversione produttiva dettata dai nuovi indispensabili standard ambientali che, peraltro, costituisce il fondamento potenziale di una nuova rivoluzione produttiva epocale in grado di rilanciare l’economia su nuove basi sociali ed ecologiche. La necessità  di queste attività , che presuppongono un forte ruolo pubblico specialmente in campo sociale, indica che il welfare state non è un lusso da tempi floridi, ma un presupposto per la crescita e la sua qualità . 
Quanto al rigore dei bilanci degli enti pubblici, non andrebbe confusa la logica ragionieristica – necessaria all’amministrazione di ciascuna azienda – con quella del bilancio pubblico da inquadrare nell’ambito della politica macroeconomica. 
La concezione economica prevalente nell’Unione Europea (nei più liberisti Stati uniti non mancano applicazioni meno «stupide» rispetto al rigorismo europeo) costituisce senza dubbio un vincolo per politiche nazionali (specialmente per l’Italia) che volessero sostenere la crescita e migliorane la qualità ; ma le posizioni espresse da Monti fin dal suo insediamento sono di convinta condivisione rispetto a quel rigorismo («sono il più tedesco degli economisti italiani»). 
D’altra parte, se le politiche comunitarie arrivano ad essere addirittura paradossali (mi permetto di rimandare su questo al mio articolo pubblicato sul manifesto del 27 gennaio e sul sito www.sbilanciamoci.info), non di meno, in ogni paese si devono sfruttare gli spazi nazionali e si deve concorrere con convinzione a modificare le politiche autolesioniste che stanno prevalendo nell’Unione.
Per i suoi contenuti, questo compito dovrebbe essere particolarmente congeniale alla sinistra, sempre che chi nel suo ambito è «più realista del re» non finisca per assecondare il messaggio di Monti secondo cui non si può fare altro; tipo la «manovra dovuta», ma che, proprio per come è concepita e realizzata, crea i presupposti per ulteriori manovre ancora più «dovute» e altrettanto depressive (come ricordano anche Stiglitz e Soros). 
Altro rischio di evidente autolesionismo per la sinistra e per l’Italia è quello di proporre (come negli articoli di Guido Viale e Francesco Gesualdi sul manifesto del 28 e 29 dicembre) improbabili commissioni d’indagine sulla formazione del nostro debito pubblico (con la partecipazione di dipendenti pubblici che dovrebbero valutare anche il proprio operato e se, addirittura, non siano superflui); questa commissione, lavorando per i prossimi mesi e anni (peraltro, la formazione del debito e la composizione della spesa pubblica non sono temi d’indagine originali; lo stesso Brunetta voleva aggiornare il tema) avrebbe tuttavia un importante obiettivo finale: dovrebbe stabilire a chi si dovrebbe congelare, ridurre o annullare la proprietà  di titoli del debito pubblico (per gli effetti disastrosi di un default, specialmente per un superamento «da sinistra» della crisi, rimando ad un mio articolo pubblicato ai primi di novembre sul manifesto e sul sito www. sbilanciamoci.info). 
Tuttavia, mentre la commissione ragionerebbe sulle forme del default in piena trasparenza rivoluzionaria, contemporaneamente (ma quest’aspetto viene curiosamente tralasciato) il Tesoro dovrebbe cercare acquirenti per il rinnovo dei titoli in scadenza che, solo nel 2012 superano, i 400 miliardi di euro.
A ben vedere, «l’audit-default» sembra una battuta da suggerire a Nanni Moretti per una riedizione aggiornata di «Ecce Bombo»; che sarebbe un’operazione culturale utile visto che, «a volte ritornano».


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