Se il restauro tradisce il genio di Leonardo

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Il solvente del restauro scioglie il sorriso e lo sfumato di Leonardo da Vinci. È l’allarme lanciato da due studiosi francesi per la pulitura della Sant’Anna al Louvre ammirata da Freud. Se il tampone del solvente va troppo a fondo nella pittura, il rischio è che insieme all’acqua sporca venga buttato via anche il bambino. È una delle paure sollevate da sempre per gli interventi su tavole, marmi, affreschi: rimuovere le vernici posticce, ingiallite e annerite dal bitume, mette a rischio la “pelle” originaria dell’opera. Che può venire scalfita. O distrutta per sempre. È su questo fronte che si sono combattute le battaglie tra studiosi per il Cenacolo e per la Sistina. 
Ora la querelle è arrivata al punto di rottura. Con la scuola francese che punta il dito contro quella anglosassone. Jean-Pierre Cuzin e Ségolèn Bergeon Langle hanno abbandonato la commissione scientifica nominata per il restauro della Sant’Anna, la Vergine e il Bambino di Leonardo al Louvre, il quadro sul quale Freud si lanciò nella sua discutibile interpretazione psicanalitica dell’omosessualità  del genio di Vinci: la pulitura rischierebbe di far svanire dal viso della Madre e del Figlio il celebre, irripetibile sfumato leonardesco. E secondo il Guardian, le dimissioni sono state presentate in polemica con altri due esperti del comitato, Larry Keith e Luke Syson. «Già  Cesare Brandi, padre della scuola italiana, criticava negli anni ’50 i restauratori inglesi per la radicalità  dei loro interventi» racconta Gianluigi Colalucci, che con la sua équipe ha condotto con successo uno dei restauri più complessi e contestati di sempre, la Volta e il Giudizio universale. «Brandi aveva un rispetto maniacale per la patina del tempo – prosegue il maestro -. E noi, suoi allievi dell’Istituto centrale di Roma, negli anni’60 facevamo dei passi in avanti rispetto al suo dogma. Ma da qualche tempo mi accorgo che si è andati troppo avanti su questa strada: adesso le puliture le forzano alla morte». 
Colalucci, che di Leonardo ha restaurato il San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana rimuovendo vernici alterate ma senza sollevare polveroni, racconta di «quadri irriconoscibili che ormai saltano agli occhi ogni volta che si va nei musei». È la sindrome della diapositiva. Nel circo delle mostre e dei musei acchiappa visitatori, nessuno vuole più toni smorti. E via con puliture radicali alla ricerca dell’originale “full color”. «Il San Sebastiano di Dresda di Antonello da Messina nel 2006 alle Scuderie del Quirinale era un quadro irriconoscibile» denuncia Colalucci. «L’illuminazione non mi permise di capire se era troppo pulito o troppo ritoccato. Ma appariva di una crudezza paurosa».
Gisella Capponi dirige l’Icr da due anni ed è meno preoccupata: «Anche a me i quadri appaiono a volte molto puliti, ma questo è perché gli strumenti sono migliori. Adesso i solventi gel riescono a seguire le irregolarità  della superficie e a rendere più omogeneo l’effetto totale. Inoltre, oggi è possibile un controllo preciso su cosa rimuovere e cosa no: l’originale non corre rischi». E ricorda le polemiche sollevate per il restauro della Pala Pesaro di Giovanni Bellini. «Brandi sosteneva che le vernici ambrate erano del maestro veneziano. Poi Michele Cordaro dimostrò che erano state stese anni dopo per ravvivare i toni della tavola dipinta». La restauratrice Anna Morcone, ora alle prese al San Michele di Roma con il Lazzaro di Caravaggio, cita il caso delle sculture lignee policrome. «Sono oggetti di culto e i committenti non vogliono saperne quando gli riporti alla luce, togliendo strati di ridipinture, i colori e le forme del Duecento». Fedeli e parroci preferiscono quelle bambole rosa e celeste che sono le Madonne dipinte e ridipinte per secoli.


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