Abbandonati a Piazza Garibaldi, la vita agra dei profughi dalla Libia
NAPOLI – Sono circa seicento, sono profughi provenienti dalla Libia, scappati dalla guerra, scampati al viaggio in mare fino a Lampedusa, vivono a piazza Garibaldi, a Napoli, altri trecento nell’hinterland. Nell’intera Campania sono circa 2.500, l’assessore alla Protezione civile della regione Edoardo Cosenza (in qualità di soggetto attuatore del governo per l’emergenza migranti dall’aprile scorso) li ha sistemati negli alberghi, il piano stabilisce un costo di circa 80 euro pro capite al giorno per l’assistenza, dai 43 ai 47 euro vanno agli hotel (dipende dalla categoria) per vitto e alloggio, essendo di fatto equiparati ai Cara, cioè ai centri di accoglienza per richiedenti asilo. Dormono e mangiano in 4 per ogni camera, spazi piccoli e privi di aria condizionata, il cibo nella maggior parte dei casi è pessimo. A ognuno viene poi riconosciuto un ticket di 2,50 euro al giorno, in molti non li ritirano nemmeno perché i negozianti non li accettano. Le poche attività commerciali convenzionate, raccontano, spesso applicano un “tasso di sconto” (non autorizzato, naturalmente) del 50%. Abiti e scarpe arrivano con un ritardo tale che spesso non sono adatti alla stagione in corso, così bisogna arrangiarsi frugando nei cassonetti.
Vivono abbandonati a piazza Garibaldi, «la Protezione civile è sparita» denunciano, nessuno si preoccupa delle loro necessità socio-sanitarie, neppure di quel minimo necessario per favorire un loro inserimento in Italia. A Napoli va un po’ meglio perché l’ospedale Ascalesi ha un ambulatorio per migranti, che rischia di esplodere, e la Cgil organizza corsi di italiano ma altrove non c’è neppure questo. «Il comune – spiegava ieri il sindaco, Luigi de Magistris – vuole essere coinvolto perché ci rifiutiamo di trasformare l’accoglienza in un problema di ordine pubblico. Chiediamo ufficialmente che venga concesso un permesso di soggiorno temporaneo di 12 mesi per dare un minimo di agibilità ai richiedenti asilo, in modo che possano seguire un loro percorso di inserimento». Palazzo San Giacomo chiede di poter avviare delle classi di italiano all’interno delle scuole che già hanno i corsi pomeridiani per lavoratori, lì potrebbero trovare un mediatore culturale che li affianchi. Sempre più urgente anche l’assistenza legale. Il rischio è che, da soli, si vedano respinta la richiesta di asilo, essendo nella maggior parte dei casi subsahariani migrati in Libia per lavorare. La percentuale di domande accolte si è già abbassata dal 50 al 40%.
I minori non accompagnati, 130, sono stati presi in carico dal comune che, attraverso strutture ponte, li ha poi affidati alle comunità accreditate: «Stiamo lavorando per ottenere dal tribunale e dagli enti preposti che possano rimanere nelle case famiglia ancora un anno oltre i diciotto, in modo da poter lavorare meglio ai progetti individuali di inserimento» spiega Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus. Gli adulti, invece, è facile vederli riuniti in gruppi di 200 seduti sui marciapiedi intorno alla Stazione centrale a non fare nulla, qualcuno col tempo riesce a inserirsi nel circuito economico informale, solo in pochi finiscono nel giro della droga e della prostituzione. «È assurdo – conclude Morniroli – spendere cifre altissime per ammassarli in un luogo già interessato da forme acute di marginalità quando si poteva dividerli in piccoli gruppi e inserirli nei centri minori con corsi di lingua e progetti di avviamento al lavoro, come succede ad esempio in Toscana».
Per la regione non c’è nessun allarme: «Per contratto, le strutture ospitanti devono fornire adeguati servizi, tra cui quelli di mediazione culturale e di assistenza legale. Ogni struttura (sia essa della Caritas o di tipo alberghiero) ha un medico di riferimento» spiega Cosenza. Già attivo un tavolo che coinvolge differenti assessorati regionali più i sindacati confederali. «Ci siamo limitati a presentare le denunce che continuamente riceviamo dai migranti e dalla Cgil – replica l’assessore comunale alle Politiche sociali, Sergio D’Angelo – sul pessimo trattamento, la mancanza assoluta di cure e assistenza legale. Sarebbe stato meglio coinvolgere gli enti locali e le strutture di accoglienza, in grado di fornire davvero i servizi di un Cara, piuttosto che gli alberghi. Se poi si vuole comunque ricorrere agli hotel, allora meglio affiancarli con operatori del Terzo settore, in grado di affrontare il compito. Il comune ha offerto la sua esperienza e disponibilità ».
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