PARTIGIANI CONTRO LA CRISI
Mentre tutti i paesi occidentali sono gravati da un pesante debito pubblico, da una bilancia commerciale passiva (eccetto il Giappone e la Germania), da una crisi finanziaria e da una caduta delle Borse da quattro anni, i capitali sovrani – cioè i capitali in mano agli Stati – crescono e si concentrano nelle potenze emergenti, che stanno facendo shopping di imprese, risorse minerarie, terreni agricoli (solo in Africa sono state acquisite dai capitali sovrani terre fertili per una superficie pari alla Francia).
La democrazia rappresentativa, simbolo e vanto dell’Occidente, non regge ai colpi della crisi finanziaria, della crisi fiscale dello Stato, della perdita di competitività verso i paesi emergenti. Proprio nella fase storica in cui l’Occidente, con gli Usa in testa, hanno tentato di “esportare la democrazia” nel resto del mondo (magari con qualche bomba di troppo), questa forma politico-istituzionale è entrata profondamente in crisi, non appare più adeguata a rispondere alle grandi sfide della globalizzazione finanziaria e del mercato mondiale. In molti circoli della haute finance, dei Ceo che governano le imprese multinazionali, cresce l’invidia per il modello cinese, un modello di capitalismo di Stato dove le decisioni vengono prese velocemente e vengono eseguite senza i logoranti rituali della democrazia parlamentare, ignorando o calpestando nel sangue le decine di migliaia di rivolte popolari.
L’area occidentale, e l’Europa in primis, dove sono nati lo Stato moderno, il mercato capitalistico (le prime forme si trovano in Italia nel secolo XIII), ed infine le Costituzioni repubblicane e la democrazia parlamentare, appare ormai come una zona del mondo sempre più marginale, travolta dagli eventi, non più in grado di dare una risposta alla crisi che la sta erodendo dall’interno. Il rilancio della “crescita” di cui tutti straparlano in Europa e negli States è il classico miraggio, un’illusione ottica in un deserto di analisi e proposte che non fa i conti con la realtà . CONTINUA|PAGINA15 La crescita del Pil a ritmi sostenuti era già finita in Occidente negli anni ’80 del secolo scorso. Solo il ricorso ad un indebitamento massiccio – di imprese, famiglie e Stati – ha permesso di mantenere artificialmente alta la domanda di beni e servizi, di drogare l’economia reale. Oggi questa corsa è finita nel default di tutta l’area occidentale e la terapia messa in atto dai governi europei, basata sulla riduzione del welfare e sui tagli all’occupazione ed ai salari, appare sempre più chiaramente come un autodafé. In un’area interna al mercato mondiale abbassare il potere d’acquisto della stragrande maggioranza della popolazione e, soprattutto, tagliare i salari ha un senso solo se questa manovra permette di esportare di più ed utilizzare il surplus della bilancia commerciale per ripianare il debito esterno. Ma il costo del lavoro incide marginalmente per molti prodotti esportati fuori dall’Ue (per le auto, ad esempio, incide solo per l’8%), ed anche per quei settori più tradizionali dove invece incide (calzature, abbigliamento, ecc) il divario salariale è tale che non è colmabile, salvo affamare letteralmente i lavoratori e fare crollare il Pil, esattamente il contrario di quello che viene sbandierato.
Infine, con una popolazione stagnante ed in gran parte dotata dei beni di consumo di massa, i consumi dei beni non alimentari avvengono in gran parte per sostituzione e spingerli ancora in alto può avvenire solo attraverso una riduzione ulteriore del ciclo di vita delle merci, con accresciuti fenomeni di inquinamento e rifiuti sempre più ingestibili. Così come le Grandi Opere, che molti rivorrebbero rifacendosi all’esperienza del New Deal di Roosevelt – senza tenere conto dei profondi cambiamenti intervenuti nell’impronta ecologica occidentale – sono sempre più devastanti, sul piano ambientale, ed inutili su quello dei bisogni sociali. Va poi ricordato che prima del crac delle Borse del 2008 la crescita in Occidente, in particolare negli Usa, si era contraddistinta per un effetto nullo o negativo sull’occupazione. Non a caso era stata definita growth jobless (crescita senza occupazione).
Ben diversa è la situazione dei Bric e di gran parte dell’Africa e dell’America Latina, dove la popolazione continua a crescere e ci sono ancora una marea di bisogni primari e secondari da soddisfare, vale a dire un grande mercato potenziale.
In sintesi, dobbiamo avere il coraggio di dire con chiarezza che la società occidentale è entrata in una fase di crisi profonda, strutturale, che va ben al di là della questione dei cosiddetti debiti sovrani (che i paesi latinoamericani chiamano più correttamente “deuda externa”, perché di “sovrano” non hanno niente).
Certo, nel medio periodo la caduta della domanda dei consumatori occidentali inciderà anche sui Bric e sui paesi emergenti, e la compensazione con la crescita dei consumi nel mercato interno potrebbe non essere sufficiente. Soprattutto c’è una resistenza popolare che si sta allargando su scala mondiale e mette in discussione il modello di accumulazione capitalistica su scala globale. Paul Hawken, riprendendo una categoria cara a Toni Negri, l’ha chiamata “Moltitudine inarrestabile”, Marx forse l’avrebbe definita semplicemente una nuova fase della “lotta di classe”, individuando nei nuovi proletari i soggetti che si oppongono all’espropriazione delle terre, delle case rurali, alla devastazione ambientale, all’impoverimento crescente. Di fatto si tratta di centinaia di migliaia di lotte sociali che registriamo ogni anno contro le Grandi Opere, i processi di urbanizzazione selvaggia, la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua. Sono i nuovi partigiani del XXI secolo che si oppongono ai processi di espropriazione ed accumulazione capitalistica, dalle circa 5000 culture indigene che tentano di proteggere le terre natie, ai milioni di contadini cinesi espropriati/espulsi dalle terre (come testimoniato su questo quotidiano da Angela Pascucci), alle vittime incalcolabili delle multinazionali del petrolio (a partire dal delta del Niger), fino ad arrivare a casa nostra dove movimenti come il No Tav ed il No Ponte stanno resistendo da vent’anni a progetti di devastazione del proprio territorio.
Se l’Ue diventerà un punto di riferimento politico, scientifico, culturale, per i “nuovi partigiani” di questo secolo avrà ancora un ruolo da svolgere nel mondo. Soprattutto se saprà dimostrare che si può “vivere meglio con meno”, se saprà mantenere alta la qualità della vita ed i diritti sociali . In breve, se sapremo utilizzare la crisi per modificare profondamente questo modello di accumulazione capitalistica, disarmare la finanza e fare emergere i nuovi bisogni sociali e ambientali.
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