Gli Occupy dalle piazze alla casa

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L’ultimatum del sindaco, il democratico Thomas Menino, era scattato giovedì a mezzanotte dopo che un giudice aveva stabilito che gli attivisti non avevano più diritto di restare nel giardino pubblico vicino alla stazione dove vivevano da 70 giorni. Loro però hanno promesso fin da subito che non sarebbero spariti dalla circolazione, anche senza tende, cibo da campo, amplificatori e la statua di bronzo di Gandhi che custodivano gelosamente dall’inizio della protesta: «Non si sfrattano le idee». E infatti la mobilitazione è continuata. Il rito dell’assemblea generale quotidiana resiste – finora si sono dati appuntamento al Boston Common, un grande parco in centro – e il morale è alto, anche perché pare che per un paio di sere a settimane potranno utilizzare una sala riunioni nella vicina cattedrale di Saint Paul. Continua la tradizione dei piccoli gruppi di lavoro tematici – una sessantina, dall’immigrazione alla non violenza – ma in assenza di un luogo di ritrovo comune ci si arrangia qua e là : chi in stazione, chi al bar, i più nostalgici a Dewey Square. Gli sforzi maggiori, però, sembrano concentrarsi su un unico obiettivo: il diritto alla casa. E non c’è da stupirsi, visto che Boston, storica città  universitaria, figura tra le cinque città  americane con gli affitti più alti. Ma gli indignati ce l’hanno soprattutto con i pignoramenti seguiti alla bolla dei mutui. Per contrastarli hanno in programma una serie di azioni in collaborazione con CityLife/Vida Urbana, una storica associazione di inquilini attiva dagli anni settanta e oggi impegnata a fianco di chi ha perso la casa nel recente crack finanziario. 
Il primo appuntamento è stato fissato a casa di una donna che dopo il pignoramento della propria abitazione vive in uno squat e rischia di finire per strada di nuovo. Anche con un piano d’azione chiaro, agli indignati i problemi non mancano, soprattutto a chi fra loro ha le tasche vuote. «La prossima volta che venite portare qualcosa da mangiare da dividere con gli altri», è stato l’appello del responsabile della defunta tenda mensa durante l’assemblea di domenica sera. Tra il pubblico giravano un vassoio di biscotti e qualche panino, chiaramente non abbastanza per sfamare un centinaio di persone. E poi c’è il freddo pungente. I clochard cercano una sistemazione e hanno deciso di riunirsi ogni pomeriggio per organizzare un piano di azione. Ma nell’era «post-Dewey Square», come qualcuno l’ha ribattezzata, c’è anche un po’ di spaesamento. Chaser, che faceva parte di un gruppo di lavoro autoribattezzatosi “nomade” perché nella tendopoli saltava da un luogo – e ruolo – all’altro, in assemblea ha raccontato che non sa più che fare: «Adesso che non abbiamo più il campo ci sentiamo inutili».


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