Nel vicolo cieco di un vago paradigma
Innumerevoli ricerche hanno ormai confermato un’intuizione di fondo che fu di Karl Marx e Friedrich Engels: e cioè che, mossi dalla necessità di esercitare un maggior controllo sul contesto storico nel quale vivono e da cui dipende la loro riproduzione, gli esseri umani hanno via via sviluppato i sistemi percettivi e cognitivi di cui sono dotati per elaborare le informazioni raccolte dal mondo fisico, biologico e sociale, generando dapprima euristiche inferenziali e poi veri e propri modelli predittivi dell’andamento futuro dei fenomeni, i quali, col passare delle generazioni, si sono sedimentati come tradizioni e artefatti culturali.
Ogni modo di produzione storicamente dato può essere infatti considerato come un sistema evolutivo che consente la riproduzione degli individui che vi sono sussunti in grazia di una specifica unità tra forze produttive materiali e rapporti sociali di produzione: vale a dire, tra progetti e processi per trasformare materia, energia e informazione in modo utile per gli scopi umani, e regole e discipline che presiedono all’organizzazione sociale. E se è evidente che l’apprendimento critico del corpus di cognizioni scientifiche ereditato costituisce un prerequisito essenziale affinché la società possa continuare a riprodursi (possibilmente migliorandosi), non meno evidenti sono le conseguenze di una situazione in cui le istituzioni collettive che presiedono al suo funzionamento si diano alla manipolazione dei fatti, allo scopo di affermare una qualche verità che pretenda di essere assoluta e non negoziabile: non solo gli individui diventano preda dei condizionamenti arbitrari di oligarchie di varia natura, ma la società nel suo complesso rischia di non potersi più riprodurre al livello dato dallo sviluppo delle forze produttive e di precipitare in un impoverimento tanto generalizzato quanto non necessario.
Epistemologia dogmatica
Sta qui, indiscutibilmente, l’importanza che la conoscenza scientifica possiede per il funzionamento evolutivo delle società umane. Un’ennesima riprova viene dall’esperienza che ha vissuto il nostro paese negli ultimi vent’anni: il declino dei finanziamenti pubblici alla ricerca ha progressivamente marginalizzato la posizione degli scienziati nel dibattito pubblico e ha determinato la riduzione (e in taluni casi la scomparsa) della competizione fra paradigmi alternativi di ricerca, con ricadute ormai evidenti sul piano del benessere sociale e della stessa morale civile.
Sarebbe fuorviante, peraltro, chiamare a risponderne un malinteso dominio della cultura «umanistica» a scapito di quella propriamente «scientifica». Al contrario, se – sulla scorta di un ineccepibile suggerimento di Tullio De Mauro – definiamo «umanistica» una cultura votata all’accertamento rigoroso di testi, documenti e fatti della storia, bisogna riconoscere che la nostra società soffre piuttosto di un gravissimo deficit di cultura «umanistica». Semmai, il problema è aggravato dal carattere intrinsecamente dogmatico di ciò che Thomas Kuhn definiva «scienza normale». È ormai assodato, infatti, che ogni paradigma scientifico funziona «rimuovendo» sistematicamente quelle anomalie che, secondo la diffusa (e fallace) epistemologia popperiana, potrebbero implicarne la «falsificazione»: buona parte della prassi quotidiana degli scienziati consiste anzi nell’elaborare ipotesi ad hoc in grado di attenuare la portata negatrice e distruttiva che le anomalie possiedono rispetto al paradigma dominante, un po’ come fanno quei giuristi che si sforzano di elaborare «interpretazioni conformi» al dettato costituzionale di norme che palesemente lo contraddicono.
Se poi consideriamo il nesso ormai acclarato fra la prassi scientifica che concretamente esprime il processo di conoscenza e trasformazione della natura e le finalità sociali egemoni all’interno dei rapporti di produzione dominanti (quanto mai opportuna, al riguardo, la nuova edizione de L’Ape e l’Architetto, di cui si è dato conto su queste colonne lo scorso 6 settembre), ce ne sarebbe abbastanza per sostenere che non un’astratta «scienza», ma una concreta competizione fra paradigmi scientifici alternativi può fare da levatrice al progresso sociale e civile.
Pure, non è questa la principale obiezione che può essere rivolta all’ultimo pamphlet di Gilberto Corbellini (Scienza, quindi democrazia, Einaudi, pp. 165, euro 10). A non persuadere, infatti, non è tanto il tentativo di istituire un nesso fra l’invenzione della scienza moderna e la diffusione degli strumenti cognitivi necessari al funzionamento delle formazioni sociali dominate dal modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto il ricorso ad un concetto affatto ideologico come quello di «democrazia», del tutto inutilizzabile in un discorso che si voglia realmente scientifico.
Il credo liberaldemocratico
Spiace davvero rilevarlo, tanto più che Corbellini, da profondo conoscitore di storia della scienza, sa bene quali caratteri connotano il discorso scientifico, rendendolo irriducibile sia al common sense che, più specificamente, all’ideologia di cui quest’ultimo è impregnato, e altrettanto bene conosce la fallacia (ideologica, appunto) di concetti come «autonomia» o «libertà ». Proprio per ciò non si comprende come egli possa ricorrere a concetti inammissibilmente vaghi come «liberaldemocrazia» o «economia di mercato», per di più immaginandoli (insieme alla «scienza») come componenti di un «insieme reattivo autocatalitico» che avrebbe rilasciato «prodotti secondari come benessere, libertà , minore diseguaglianza, razionalità , ecc.». Anche passando sopra l’identificazione sostenuta (ma nient’affatto argomentata) tra «democrazia» e «liberaldemocrazia», è evidente che definire quest’ultima come «un sistema politico basato su elezioni libere e a suffragio universale» e «un sistema di governo basato su una costituzione liberale» non significa nulla se non manifestare una preferenza soggettiva per l’attuale assetto sociopolitico americano: la qual cosa – Corbellini non ce ne vorrà – non ha più titoli scientifici della fiducia che i creazionisti ripongono nell’Intelligent Design.
La scienza della storia
Ciò detto, non si può non convenire con Corbellini allorché ipotizza che non sia casuale la coincidenza fra «il declino della cultura scientifica, del rispetto politico per l’obiettività dei fatti e del senso civico nonché l’involuzione della morale civile». Sospettiamo però che la causa causans risieda nell’abbandono della prospettiva di ricerca della scienza della storia, che era stata dischiusa dal materialismo storico marxista. Fermo restando che si tratta di un paradigma che necessita di non pochi rimaneggiamenti di certe ipotesi ausiliari, il suo nucleo è infatti l’unico che ad oggi può garantire che un discorso sulla natura e vitalità delle nostre relazioni sociali possa essere affrontato mettendo davvero al bando tutti gli antropocentrismi, antropomorfismi e finalismi che ancora infestano tutti gli approcci conoscitivi ispirati a quell’individualismo metodologico che, dopo essersi affermato nella teoria economica neoclassica, è dilagato fino a colonizzare le più disparate branche della scienza.
Si deve sapere, piuttosto, che la sola evocazione del materialismo marxista espone oggi al rischio di una scomunica da parte della «comunità dei dotti» che si (auto)celebra nelle pagine culturali dei quotidiani borghesi: alla sua luce, infatti, diventa chiaro che – contrariamente a quel che crede Corbellini – non ci sono affatto ragioni per ritenere che l’attuale motore della macchina socioeconomica su cui stiamo viaggiando possa ancora «creare benessere, libertà ed eguaglianza (morale e di opportunità )». Come hanno capito anche i mercati finanziari.
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