La transizione verso la nuova politica

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Se nell’anno o poco più che presumibilmente ci separa dalle elezioni questa funzione non riuscisse a recuperarla, se insomma proseguisse l’andazzo di queste settimane, allora sì, anche chi rischia di innervosirsi (per quel che vale, è il mio caso) quando sente parlare di sospensione della democrazia dovrebbe riconoscere che davvero siamo entrati in una stagione del tutto nuova. O meglio dovrebbe prendere atto dell’esito post democratico di una «transizione» quasi ventennale, inaugurata con l’obiettivo dichiarato di venire a capo di una crisi democratica seguendo un percorso riformatore. Il termine, indubbiamente, è assai vago (ma, se è per questo, non lo sono meno gli innumerevoli «post» con i quali, e non solo in politica, ci si balocca da un pezzo). Di certo però, in attesa di definizioni più adeguate, sarebbe difficile non considerare quanto meno post democratico un regime politico in cui agli eletti dal popolo, alle coalizioni, ai partiti quasi per definizione fosse riservato, nel migliore dei casi, un ruolo gregario; magari addolcito, come era un tempo per le ciurme, da una modica quantità  di diritto al mugugno.
Non si tratta, ci mancherebbe, di un esito scontato, ma di una (pessima) possibilità  concreta, sì. I partiti, a cominciare da quelli che appoggiano il governo guidato da Mario Monti, lo sanno, o almeno lo intuiscono. Così come (si spera) sanno, o intuiscono, che è illusorio pensare di scongiurarla condendo quotidianamente l’appoggio all’esecutivo di borbottii, penultimatum, mezze prese di distanza abbozzate nel tentativo di non perdere il contatto con questo o quel pezzo del proprio elettorato che è, o si considera, ingiustamente colpito dalle misure del governo. Ma di questa illusione sembrano prigionieri. Come se davvero credessero, quando si tratterà  di presentarsi agli elettori, di poter rappresentare la stagione appena inaugurata dell’emergenza alla stregua di una parentesi tanto obbligata quanto dolorosa, della quale sono stati partecipi, sì, ma solo per lo stretto necessario; e di poter chiedere il voto riprendendo le fila di un vecchio discorso interrotto, con il più classico degli heri dicebamus.
Peccato (si fa per dire) che una simile prospettiva semplicemente non esista. Sarebbe già  qualcosa, certo, ma non basterebbe a renderla molto più realistica, una politica che cercasse di passare la nottata dedicandosi solo ai temi di sua più stretta pertinenza: dalla diminuzione dei propri costi e dei propri privilegi a una riforma della legge elettorale che restituisca ai cittadini l’elementare diritto di scegliere i propri rappresentanti, e agli eletti la dignità . Serve (servirebbe) qualcosa di più. Anzi, molto di più. Dei mesi che ci aspettano sappiamo che saranno molto duri e difficili, e pochissimo altro. Ma di sicuro l’Italia che andrà  a votare sarà  (economicamente, socialmente, culturalmente: e quindi anche politicamente) un Paese assai diverso da quello che abbiamo conosciuto sin qui, vivrà  drammi, speranze, passioni che ben difficilmente si lasceranno incasellare secondo le categorie di una stagione, quella di un bipolarismo feroce e inconcludente al tempo stesso, che per molti anni è parsa a tutti, fan e avversari di Silvio Berlusconi, quasi destinata all’eternità , e già  adesso fatichiamo un po’ a ricordare. 
Quale Paese sarà , con quali drammi, speranze e passioni avremo a che fare, nessuno può dirlo con esattezza oggi, quando la paura del futuro sembra il sentimento dominante. Ma è esattamente su questo che oggi dovrebbero cimentarsi, confrontarsi, individuare i punti di condivisione e quelli di contrasto tra loro e nei confronti dell’esecutivo, e insomma ritrovare la loro stessa ragione sociale di esistenza, partiti chiamati, pena una crisi irreversibile, a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», così come recita la Costituzione. Che questi partiti sappiano e possano farlo è lecito e anzi doveroso dubitare. Ma è proprio nei tempi calamitosi che talvolta si affermano leadership democratiche capaci di tenere insieme etica della convinzione ed etica delle responsabilità , volontà  politiche, e persino visioni strategiche altrimenti inimmaginabili. Non è moltissimo, e però è su questo che tocca fare affidamento. Perché per il resto (rubo la citazione di Guido Dorso al presidente Napolitano) la formazione dei gruppi dirigenti è un mistero


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