Terrore a Bagdad, oltre settanta morti

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Bombe, sangue e paura a Bagdad come nei momenti peggiori del terrorismo tra il 2006 e 2007. Almeno 16 ordigni sono esplosi ieri in 11 quartieri della città , quasi tutti sciiti, causando la morte di una settantina di persone e il ferimento di altre 190. Una raffica di attentati portati a compimento con mine magnetiche, cariche nascoste ai lati delle strade, auto bomba (almeno una condotta da un kamikaze) che hanno investito scuole, uffici pubblici, negozi, mercati, passanti, poliziotti e abitazioni. «La città  dal primo pomeriggio è deserta. Il traffico quasi nullo. Nessuno va a fare le spese tradizionali in preparazione del venerdì musulmano. Molti stanno murando i loro negozi per timore di saccheggi e scontri di piazza tra sciiti e sunniti, come nelle settimane seguite all’invasione americana del 2003», confermava ieri sera il collaboratore del Corriere nella capitale.
I commentatori locali e internazionali sono concordi nel sottolineare che si tratta di attentati ben coordinati tra loro. Ci vuole tempo e un’ottima logistica per congegnare azioni di questo tipo. La maggior parte delle deflagrazioni è avvenuta in mattinata dalle 8 alle 11, e ha investito zone centrali come Karrada (uno dei quartieri commerciali più importanti), Adamiya (dove si trova la principale moschea sciita della città ) e le aree residenziali di Ghazaliya, Shaab e Dora. L’impressione è che il piano sia stato preparato da gruppi intenzionati a gettare fango ancora una volta contro l’intera missione americana nel Paese a soli quattro giorni dal ritiro dell’ultimo soldato. Domenica il presidente Barack Obama, ben attento a evitare di pronunciare quel celebre «missione compiuta» che dal maggio 2003 divenne il patetico simbolo delle illusioni di George Bush, aveva dichiarato che le truppe Usa lasciano un Iraq «stabile e autosufficiente». La risposta del terrorismo non si è fatta attendere. Le modalità  dei massacri sembrano avere la firma ben nota di Al Qaeda e dei gruppuscoli dell’estremismo sunnita.
Pure, l’elemento più grave dell’ondata di terrorismo, e la destabilizzazione conseguente, non è legato alle vecchie dinamiche della violenza irachena, ma si innesta e amplifica piuttosto sulla gravissima crisi politica in atto all’interno del governo. Lunedì scorso infatti, solo 24 ore dopo il ritiro Usa, il premier sciita Nouri Al Maliki ha sferrato un colpo mortale alla coalizione di unità  nazionale (fortemente voluta dagli Stati Uniti un anno fa) accusando il vicepresidente sunnita Tariq Al Hashemi di essere mandante di una serie di attentati mortali contro esponenti sciiti negli ultimi cinque anni. «Ordino un mandato d’arresto nei confronti di Al Hashemi, che dovrà  rispondere delle sue colpe in tribunale», ha dichiarato Maliki durante una conferenza stampa nella quale se l’è presa anche contro il vicepremier Saleh Al Mutlaq, altro sunnita di punta che negli ultimi tempi ha pubblicamente accusato il premier di essere «un dittatore».
In poche ore si è così concretizzato uno dei maggiori timori dell’amministrazione americana: il caos in Iraq, il ritorno della guerra civile tra sciiti e sunniti, con l’inevitabile crescita della presenza iraniana forte della sua alleanza storica con l’elemento sciita. Tariq Al Hashemi ha trovato nel frattempo rifugio nel Kurdistan iracheno e da qui si dichiara innocente, ma pronto a combattere. Nei prossimi giorni la rinnovata alleanza sunnito-curda potrebbe sfidare apertamente la maggioranza sciita affondando così ancor più le speranze per un nuovo Iraq pacificato e indipendente.

*(Da Bagdad ha collaborato Walid al Iraqi)


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