Lavoro, la Cina ci obbliga a cambiare (ora)
Il 19 dicembre ho letto sul questo giornale un’intervista all’amministratore delegato di Google, che afferma, fra le altre cose: «Secondo me la politica in Italia, in Europa, e in una certa misura anche negli Usa, non è riuscita a mettere a fuoco la sfida che ha davanti. Si fanno soprattutto scelte tattiche, anche se importanti: le pensioni, i sostegni all’euro. Ma il vero problema è quello della competizione globale, dalla quale non ci possiamo ritirare. Puoi avere questo desiderio, ma se l’Italia realizza un grande prodotto e poi i cinesi si mettono a farlo meglio, non hai alternative: devi cambiare. La gente, da voi come da noi, è molto arrabbiata per questo…». Lo stesso giorno, sempre sul Corriere della Sera, leggo la reazione dei sindacati alla manovra: «La leader Cgil ha poi ribadito la sua strenua difesa dell’articolo 18: “Una norma di civiltà che dice che non si può licenziare un lavoratore perché sta antipatico, ha opinioni politiche o fa il sindacalista. Anche se non si applica a tutti è un deterrente contro la discriminazione. Un Paese democratico e civile non può rinunciarvi». Non entro nel merito di chi ha ragione e chi ha torto. Credo invece che le energie e le intelligenze dovrebbero essere convogliate nella costruzione di un sistema che permetta alle aziende (tutte e non solo quelle con meno di 15 dipendenti) di poter assumere e licenziare senza che questo debba essere, per chi viene licenziato, un dramma o la rovina di una famiglia. Ci sono esempi nei Paesi scandinavi che potrebbero essere studiati.
Sono le aziende (pubbliche o private) a creare ricchezza, e operano in un mercato globale in cui purtroppo le regole non sono le stesse in ogni Paese. Vincono i Paesi che facilitano le loro aziende, mediante una regolamentazione più rilassata, manodopera qualificata a minor prezzo e manipolazione dei cambi delle valute. Gli altri subiscono una progressiva riduzione della loro ricchezza, minori servizi pubblici, disordini sociali e impoverimento della loro forza di lavoro, per mancanza di esperienze al passo con le sfide dei tempi. A meno che non vi sia un ritorno, più o meno auspicabile, a una forma di protezionismo dei mercati, dobbiamo adattarci a queste regole finché non cambieranno. Non farlo ci spingerà inesorabilmente sempre più all’interno di una spirale letale che non può che portare a minor democrazia e civiltà .
Assicurare alle nostre aziende un futuro in cui possano creare ricchezza per tutti, non solo per pochi, vuol dire mettere in campo un sistema che permetta di superare senza traumi finanziari un licenziamento. Significa dare la possibilità di imparare un nuovo lavoro, grazie a scuole di formazione gratuite che assistano i cittadini per adattarsi, nel tempo, ad un mondo del lavoro che cambia più velocemente di quanto abbia fatto in passato (sarebbe auspicabile che il ministro Fornero avesse delle competenze in questo settore). Significa costruire una società in cui tutti pagano le tasse e non solo quelli che, in quanto dipendenti, non possono evaderle. Solo così potremo abbassarle, ripagare i nostri debiti e mantenere o migliorare i servizi pubblici per i cittadini. Spero che il governo Monti abbia un piano efficace che vada oltre la tracciabilità dei pagamenti superiori a mille euro, vista la sua reputazione da mastino. Il mondo è cambiato ed è incompatibile con il modo in cui siamo abituati a pensare e vivere. Spero per il mio Paese che i parlamentari per bene, i sindacati e i cittadini lo capiscano e comincino a lavorare a livello nazionale e internazionale per costruirne uno diverso e migliore.
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