L’EGOISMO DELLE CORPORAZIONI

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La contraddizione è stridente ma diventa palese e pesante quando il Paese si trova a fronteggiare crisi di sistema, siano esse di tipo economico o politico; quando, in altre parole, la radicalità  dei problemi richiede interventi che, se attuati, eroderebbero aggregazioni corporative e i privilegi di chi ne è parte. 
Nell’emergenza del primo dopoguerra il liberalismo perse insieme allo stato di diritto, di fronte a una società  civile che non riuscì ad assorbire la liberalizzazione economica e a uno stato refrattario rispetto alla democratizzazione. In quegli anni furono pensatori “radicali” come Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi a schierarsi contro il protezionismo e lo stato degli interessi corporativi, allora quelli agrari al Sud e al Centro, e quelli industriali al Nord: nel mezzo, una classe media che si assottigliava e che, prevedibilmente, si scagliò con i vicini di casa, gli operai sindacalizzati, i più vulnerabili e meno corporativi. A risolvere la contesa tra liberalismo e corporativismo fu, come sappiamo, il fascismo che ufficializzò la sconfitta del primo. Oggi, la storia sembra ripetersi (e c’è perfino chi vede nel duce un modello legittimato come “democrazia minore”). 
Le corporazioni rappresentano una parcellizzazione egoistica della società  e sono l’ostacolo peggiore alla solidarietà  di cittadinanza, della quale c’è soprattutto bisogno nei casi di crisi come questo. Sono anche una palla al piede per una società  che è strutturalmente volta al passato.
Sono state paragonate alle lobby americane. Ma il paragone non è in tutto appropriato. Certo, si tratta di gruppi di pressione che cercano appoggio nelle istituzioni e in chi fa le leggi. Ma le lobby sono, nonostante tutto, figlie della società  di mercato, nate con il capitalismo. Si tratta di interessi economici prominenti che impiegano parte del loro budget per finanziare campagne elettorali di candidati amici, per spingere il Congresso a perseguire o a osteggiare determinate leggi: interessi che non sono protetti a priori e che per questo cercano sostegno politico. Sia quando chiedono allo Stato di non regolamentare (produttori di tabacco o di armi da fuoco) sia quando ne chiedono l’intervento protettivo con politiche doganali (industria automobilistica e agricoltura). Ma queste politiche pilotate, che piaccia o no a chi le vuole, si devono arrendere se l’opinione pubblica le osteggia. 
Le corporazioni italiane sono altra cosa, non solo perché operano prevalentemente nel settore dei servizi e delle professioni, ma anche perché sono vere e proprie gilde, con il blasone di licenze pubbliche o di norme che le riconoscono. Sono figlie cioè di uno Stato che, spesso lo si dimentica, si è incardinato nel corso dei decenni (e a prescindere dai regimi politici) su una società  corporativa e spesso ostile al liberalismo. Ecco l’anomalia: uno Stato di diritto liberale che si appoggia su una società  di stampo antico nella quale il liberalismo fa comunque fatica ad essere di casa; spesso confuso con l’arbitrio di fare il proprio interesse contro quello di tutti gli altri e con l’idea che per cavarsela si deve fare cartello, conquistare la protezione di una licenza, di una patente, di un balzello. Stare al riparo dalla competizione. Le lobby sono funzionali a una società  di mercato che tratta la politica come un affare. Le corporazioni non figlie di una società  che teme il mercato, strutturate come una confederazione di staterelli automi, ciascuno con i loro affiliati, vincoli di ingresso, privilegi e riconoscimenti. Se le lobby sono espressioni di una società  dove tutto è contrattabile, le corporazioni rivendicano la prerogativa di non stare alla contrattazione, di avere i loro interessi al riparo di uno scudo impenetrabile (meno farmacie più lucro per le farmacie esistenti; meno taxi in circolazione più introiti per chi è già  dentro). Le corporazioni rendono la società  una coesistenza poco pacifica di interessi non-contrattabili, rispetto ai quali lo stato di diritto è un ostacolo da aggirare, anche con il ricatto della destabilizzazione. 
Da questa situazione di stallo che ingessa il Paese, che rompe la solidarietà  e rende il governo (ogni governo) impotente e sotto ricatto, non si è ancora trovato il modo di uscire. I commentatori scrivono che il governo Monti è forte perché non c’è alternativa ad esso. Ma questa forza può diventare la sua debolezza, poiché esso non può permettersi il lusso di semplicemente persistere nel tempo. È stato creato per fare in poco tempo quel che un governo di partiti non ha trovato nel suo interesse fare. Proprio perché libero da quegli interessi il governo ha forza. La sua forza è di non dovere andare davanti agli elettori – la forza dello strappo alla democrazia elettorale. Ma se non la sa sfruttare, se non fa propria la massima machiavelliana di fare il da farsi subito, allora l’essere lì perché non c’è alternativa diventerà  la ragione di una irrimediabile debolezza. E i partiti della vecchia maggioranza, che non hanno osato fare quel che dovevano, troveranno conveniente approfittare dello scontento delle corporazioni e invocare una “democrazia minore”.


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