Ossessione Millenium
Annunciato dalle note stridenti di Immigrant Song dei Led Zeppelin, sullo sfondo di una sequenza di credits che ricorda quelli dei James Bond, ma sprofondati in un pozzo di pece, The Girl With the Dragon Tattoo esce oggi nelle sale Usa (in Italia il 3 febbraio) – seducente, dissonante, brivido gelato nei listini scaldacuore del cinema natalizio. Per chi avesse temuto la possibilità un oggetto soft, la versione «hollywoodiana» del primo romanzo della trilogia fenomeno di Stieg Larsson non ha nulla di edulcorato rispetto al libro e al film che ne era stato tratto nella miniserie televisiva svedese di Niels Arden Oplev, tre anni fa. Autore di precisione maniacale, incantato dalle ossessioni e dai rompicapo dei suoi personaggi e già esploratore di serial killer in Seven e Zodiac, David Fincher riassorbe la narrativa verbalmente sassosa e piena di biforcazioni di Larsson e la deprimente piattezza visiva del suo adattamento tv in un thriller di quasi tre ore che corre veloce e deciso come la moto nera a bordo della quale Lisbeth Salander sfreccia per Stoccolma di notte.
Un film di misteri seppelliti in ricchi, austeri, paesaggi nevosi, in sporche vicende di famiglia, aberrazioni della Storia e nella corruzione dei poteri. Ci sono Madoff, Wikileaks, i nazisti e molti uomini che odiano le donne in questo The Girl With the Dragon Tattoo, tutti gli ingredienti che hanno contribuito al boom editoriale del libro. Ma, ancora più che nelle incarnazioni precedenti, l’oggetto della fascinazione di Fincher (e quindi del pubblico) è Salander. Per il ruolo della super-ricercatrice, hacker imbattibile, protetta e vittima dei servizi sociali scandinavi, Fincher ha preferito una quasi sconosciuta, Rooney Mara (che aveva usato in due scene chiave di Social Network, nella parte della fidanzata di Mark Zuckenberg), ad attrici note come Scarlett Johansson e Natalie Portman. La svedese Noomi Rapace – una molla contratta pronta a scattare, lo sguardo opaco, impenetrabile, di qualcuno che ha sofferto troppo- era indubbiamente la cosa più riuscita della miniserie tv (in Europa tre di questi episodi sono usciti nelle sale: Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta).
Al suo confronto, come un gracile, nervoso, uccello nero, la Lisbeth di Rooney Mara, raccontata dall’occhio stilizzato di Fincher, ha un qualcosa di performance art. Una dolcezza sinistra di evidente sensualità (d’altra parte, tutto il cinema di Fincher è sexy), forse persino una traccia di humor e, sotto le sopracciglia ossigenate (mentre tutto il resto della testa è nero corvo) e dietro alle iridi chiare, l’invito a guardarle dentro, anche quando ti sta chiudendo fuori, o sta per sodomizzarti a calci con un fallo metallico. Magari più vulnerabile di quella di Rapace, la Salander di Rooney Mara è però anche più «altra», complessa e pericolosa -una Medusa sul cui volto di luminoso marmo bianco la macchina indugia spessissimo. Tagliando e rendendo più agile, veloce e patinata la progressione della storia, Fincher e lo sceneggiatore Steven Zaillian (Schindler’s List, Gangs of New York, Moneyball) concentrano il il film sul duetto tra Salander e il giornalista Mikael Blomkvist (007/ Daniel Craig, e un notevole miglioramento rispetto al predecessore svedese).
Umiliato dopo aver perso una causa per diffamazione intentatagli da un potente finanziere locale, il giornalista investigativo Blomkvist, cofondatore della rivista Millenium, accetta l’offerta di lavoro di un patriarca della vecchia aristocrazia industriale svedese, Henrik Vagner (Christopher Plummer). Esiliato dai tempi e dalla tristezza in un sontuoso palazzo su un’isoletta nordica, Vagner sta cercando da quarant’anni l’assassino di sua nipote Harriett, scomparsa misteriosamente durante una megariunione natalizia di famiglia. Invitato a stabilirsi in un cottage lì vicino, Blomkvist è assunto ufficialmente come biografo del patriarca e, nella realtà , per cercare il serpente più pericoloso in una famiglia/nido di vipere. Molto meno interessato di Larsson ai dettagli delle perversioni caratteriali dei singoli Vagner, Fincher si muove veloce tra l’isoletta gelata dove Blomkvist si improvvisa Sherlock Holmes e Stoccolma, dove Salander si mantiene entrando e uscendo illegalmente dai computer altrui per conto di una compagnia di ricerche ad alto livello e dà una lezione feroce e indimenticabile all’avvocato pervertito, che non solo la violenta ma vuole intralciare il suo stile di vita -completamente ai margini della società , eppure organizzatissimo.
Un po’ Hitchcock, un po’ Csi e Cold Case, The Girl With the Dragon Tattoo salta avanti e indietro tra i due – il microcosmo «civile», tutto apparenze, in cui viene effettuata l’inchiesta di Bloomkvist e il Far West totale in cui esiste Salander. Lui, analogico, lineare, lei digitale, inafferrabile. Conan Doyle e Assange. È l’incontro/scontro tra gli opposti (come quelli delle commedie brillanti anni trenta), la strana, cauta, collaborazione che si instaura tra i due che interessano a Fincher. Catturare la traccia di fiducia che lei comincia ad esibire nei confronti del giornalista, le feroce aggressività con cui una ragazza vulnerabilissima protegge un uomo adulto, la semplicità con cui lo porta a letto……
Rielaborato dal regista di Social Network, con l’aiuto della colonna sonora di Trent Raznor e Atticus Ross, della fotografia di Jeff Cronenweth e di un cast in cui spiccano il soave, cattivo Stellan Skarsgard, Robin Wright e Joely Richardson, Stieg Larsson diventa hip. Ma anche più interessante. No, The Girl With the Dragon Tattoo non è il film più originale e personale del regista di The Curious Case of Benjiamin Button. E forse, come dicono i fan del libro e dell’adattamento svedese, non è neanche un film che fosse «necessario». Ma questo frigido pulp hollywoodiano di altissimo livello è tra le sorprese miglori di un Natale di mediocrità buonismi e semplici sbadigli.
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