La libertà  di licenziare non porta ad assumere le imprese: per noi è la domanda che manca

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Non si tratta di licenziamenti, di articolo 18, di flessibilità  in uscita: il vero guaio, per le imprese italiane, è la mancanza di prospettive a breve termine. Arrivano poche commesse, i dipendenti che già  ci sono bastano e avanzano, c’è la crisi dei consumi, c’è un enorme difficoltà  di accesso al credito. Ecco perché non ci si lancia in nuove assunzioni: il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa c’entra poco e niente. 

E’ questo che dicono le aziende italiane e l’atteggiamento emerge con chiarezza se si guarda all’ultimo rapporto Excelsior Unioncamere. Interrogati sulle intenzioni o meno di assumere e – nel secondo caso – sui motivi della mancata creazione di nuovi posti di lavoro, gli imprenditori danno risposte chiare. A frenare l’assunzione, è la mancanza di nuove commesse (5,7 per cento) o l’incertezza e la domanda in calo (14,1), quindi nel 20 per cento dei casi sono le condizioni di mercato a dettare la strategia. La stragrande maggioranza delle aziende ritiene che l’organico presente sia sufficiente (il che vuol dire che non ha mire espansionistiche): comunque sia, la mancanza di una flessibilità  in uscita non viene nemmeno menzionata fra le prime cause del fermo occupazionale. Probabilmente è compresa nella casella «altri motivi», barrata solo dal 1,2 per cento dei centomila imprenditori che costituiscono il campione dell’indagine. E la graduatoria delle motivazioni non varia di molto se si ragiona sull’ambito territoriale o sulle dimensioni dell’azienda. In realtà , le aziende che invece assumono sono proprio quelle grandi, dove l’articolo 18 trova applicazione.
Che non sia l’articolo 18 a determinare la politica del lavoro di una azienda lo conferma anche Mario Sassi, responsabile del Welfare per la Confcommercio. «A bloccare le assunzioni sono il costo del lavoro e la crisi dei consumi – afferma – in assenza di queste due condizioni non ci può essere occupazione». Il ragionamento, precisa, vale sia per le piccole che per le grandi imprese: «intervenire sulla flessibilità  in uscita senza affrontare le vere cause del problema porta ad incanalarsi in una polemica pregiudiziale e ideologica». Prima di parlare di articolo 18, secondo Confcommercio «va piuttosto affrontato il tema degli ammortizzatori sociali, che dovranno garantire un sostegno ai lavoratori che usciranno dalle aziende ma, visto l’innalzamento dell’età  pensionabile, non saranno coperti da assegno». Altre priorità , secondo Sassi, sono «la formazione e l’accesso al credito: solo affrontando tutto questo si può parlare anche di articolo 18». 
La questione non è di poco conto perché è vero che l’Italia è il paese delle piccole imprese, ma l’articolo 18 è applicato alla maggioranza dei lavoratori. Lo certifica la Cgia di Mestre che guardando alla platea dei dipendenti italiani assicura che «oltre il 65 per cento degli occupati – quasi i due terzi del totale – lavora in aziende con più di 15 dipendenti, quindi sottoposte alla norma».


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